Attualità

La memoria degli scrittori

In occasione della pubblicazione delle Lettere di John Cheever, abbiamo chiesto a un po' di scrittori italiani che destino dovrebbe avere la loro corrispondenza, ma anche i loro diari, i loro appunti e i loro inediti. Una lunga riflessione collettiva.

di Veronica Raimo

«Le nostre vite non sono estese né costanti né ordinate. I nostri personaggi non moriranno a letto. La forte sensazione del tempo già trascorso e di quello che se ne sta andando, sensazione che è forse l’unica peculiarità spiegabile e commendevole del romanzo, non ci appartiene. Le nostre vite non sono storie lunghe e ben raccontate».

Così scrive John Cheever in una delle sue centinaia di lettere, ora in uscita per Feltrinelli (nella traduzione di Tommaso Pincio). Il volume è curato dal figlio Benjamin, che nel suo lavoro redazionale sembra quasi voler dare alla sterminata corrispondenza del padre (e dunque alla sua vita) quella forma romanzesca che Cheever stesso ha conflittualmente inseguito per anni nella propria opera letteraria.

Nell’introduzione al libro, Benjamin azzarda una messa in crisi dell’intera operazione che sta portando avanti, confessando i propri dubbi e sensi di colpa (pubblicare qualcosa che il padre non avrebbe mai voluto) ma spiegandone le motivazioni ultime, alla ricerca di un consenso che ha il sapore antipatico di un’assoluzione.

«Non si tratta di una raccolta di lettere in senso convenzionale, bensì, spero, di un ritratto dell’uomo che affiora dalla corrispondenza». Per ottenere questo ritratto olistico, Benjamin inserisce stralci dell’opera narrativa e dei diari di John Cheever, intervallati da una serie di annotazioni pratiche e commenti personali a far da raccordo. Ha uno stile pulito e impostato da curatore, addolcito dall’affetto di un figlio. Eppure in quell’affetto, spesso troppo consapevole per essere toccante, ho sentito un ambiguo senso di rivalsa, come una postuma resa dei conti. La rettifica teorica ed emotiva rispetto al contenuto delle lettere, questo patto col lettore in un affratellamento forzato prima ancora che il lettore potesse decidere per contro proprio cosa pensare, ha finito per avere su di me l’effetto contrario: un senso di distanza e frustrazione. Era come se Benjamin mi ammonisse continuamente su ciò che stavo per leggere, una sorta di spoiler alert già munito di morale.

Come avrei reagito io all’idea che i miei scritti privati un giorno sarebbero finiti il libreria? E i miei inediti?

Per fare un esempio: «Perfino alla soglia dei settanta» commenta nell’introduzione a proposito del padre, «pur scrivendo lettere d’amore depravatamente oscene a più di un giovanotto, si alzava anche alle sette del mattino e preparava il vassoio della colazione per mia madre». Sono righe che suonano quasi come uno statement. La contrapposizione tra l’omosessualità e l’amore domestico (condensati in cliché da film hollywoodiano: da una parte le lettere «depravatamente oscene» dall’altro il «vassoio della colazione»), il giudizio sull’immoralità di avere un desiderio sessuale «persino alla soglia dei settanta», la lotta tra un’ansia di trasgressione e un tentativo di ordine e consuetudine, banalizzano il concetto stesso di conflitto, nell’illusione ricattatoria di restituire la complessità dell’uomo.

Mi sono chiesta se sarebbe stato diverso il mio approccio alle lettere se non ci fosse stata quella voce-guida a instillare un dubbio di malafede. Forse sì, ma in effetti non mi ero mai posta un’altra questione: ovvero se fosse giusto o meno pubblicare la corrispondenza privata di uno scrittore, contro la sua volontà e per dei fini – chiamiamoli così – di utilità pubblica. Il fatto che fosse un figlio a farlo era una parziale giustificazione o un’aggravante?

Come avrei reagito io all’idea che i miei scritti privati un giorno sarebbero finiti il libreria? E i miei inediti?

Scartando le considerazione più ovvie,  ovvero che un’eventualità simile si sarebbe verificata solo in caso di diventare una scrittrice particolarmente famosa – con tutta la vanità che un pensiero simile comporta – quello su cui ho cominciato a ragionare è il rapporto non solo tra la scrittura e la posterità, ma anche tra la scrittura come fatto individuale  e come fatto pubblico. Se si decide di essere degli scrittori, al di là del successo, può esistere davvero un confine netto tra le due sfere?

A diversi livelli di consapevolezza, non è forse sempre implicita la presenza di un lettore, di un destinatario? Lo cerchiamo e lo creiamo allo stesso tempo? I social network non hanno in fondo reso evidente questa pulsione? Avendo la possibilità in vita di decidere il destino dei miei scritti una volta che non ci sarò più, sceglierei l’oblio o affiderei tutto a qualcuno? O forse, più probabilmente, accetterei il fatalismo di non poter esercitare un controllo, perché la sola idea di controllare ciò che saremo quando non ci saremo è una forma di onnipotenza che mi attrae e insieme mi respinge?

Eppure, oggi che la maggior parte della scrittura ha abbandonato il cartaceo, persino Google ha creato un’opzione (Inactive Account Manager) che ci consente di esercitare la nostra volontà in questo senso, una sorta di testamento digitale per la nostra corrispondenza telematica. Così, finché siamo vivi, ho pensato di porre queste domande a un po’ di scrittori.

 

I testamenti traditi
Il mondo è dei vivi?

Tommaso Pincio: La volontà dello scrittore è irrilevante. Il destino di quanto lasciamo dopo la morte è incontrollabile. Se davvero vogliamo che certe cose spariscano con noi, dobbiamo provvedere per tempo alla distruzione. Sperare che i posteri si comportino da fedeli esecutori testamentari, attendendosi soltanto ai nostri desideri, è un’illusione. E probabilmente non è nemmeno giusto aspettarsi alcunché. Il mondo appartiene ai vivi, non ai morti. Pertanto bisogna essere pronti: o si vive ogni giorno come fosse l’ultimo, lasciando la casa in ordine e ben pulita, evitando di seminare tracce di cui ci si potrebbe pentire, o si accetta che gli altri facciano ciò che ritengono più giusto o conveniente.

Cristiano de Majo: L’interesse del pubblico prevale sulle ragioni della riservatezza. D’altra parte che peccato sarebbe stato per i lettori non avere la possibilità di leggere I diari di Cheever? Ce ne freghiamo della volontà di Cheever perché un autore morto si presta a diventare cibo per un banchetto e io credo che in fondo oltre che naturale sia anche giusto. La vera domanda secondo me è: perché consideriamo l’interesse del pubblico come qualcosa di moralmente disdicevole per definizione?

«La vera domanda è: perché consideriamo l’interesse del pubblico come qualcosa di moralmente disdicevole per definizione?»

Edoardo Nesi: Io sono un vero patito dei diari e delle lettere degli scrittori. Leggerli alle prese con la vita, a partire dai problemi più semplici per finire ai lutti più dolorosi, mi è sempre stato d’aiuto e di insegnamento. Spesso mi son consolato al pensiero di quanto avessero sofferto di scarse vendite e poca considerazione critica autori oggi considerati geni assoluti, ammirati e riveriti, che di queste disgrazie riuscivano però a sfogarsi solo nei diari. E son sempre stato incuriosito dallo stile con cui decidevano di scrivere una lettera a un amico, un nemico o un’amante.

Francesco Pacifico: Non mi sono mai posto il problema dell’imbarazzo dello scrittore. Le sue lettere e i suoi diari mi servono per due motivi: capire come si invecchia decentemente (o indecentemente) da scrittore; sentire come ragiona sulla scrittura.

Vanni Santoni: In generale penso che l’autore abbia il diritto di stabilire cosa di ciò che ha scritto è pubblicabile e cosa non lo è, anzi tale selezione è proprio parte del processo di scrittura. La storia della letteratura però ci insegna che spesso gli autori non sono i giudici migliori del proprio lavoro. Quindi degli scritti facciano quello che vogliono, e pure della corrispondenza: se proprio pensano che sia il caso di pubblicarla, non sarà un cadavere a impedirglielo.

 

Quell’oscuro oggetto del desiderio
Voyerismo e senso di colpa

Marco Missiroli: Mi piace leggere di scritti intimi, di qualcosa che inizialmente era sfuggito all’idea della pubblicazione e che per questo, probabilmente, è stato concepito senza troppi filtri. È materia incandescente e rivela un midollo. Però dal punto di vista dell’autore mi indigna, è in un modo o nell’altro una violazione.

Carolina Cutolo: Mi sento in colpa, come se avessi crackato una password, mi sento una stalker, una di quelle fan che perdono il senso della realtà e non si rendono conto di dare per scontata una conoscenza reciproca invece che drammaticamente univoca. Ma dopo che inizio a leggere ho subito la sensazione che ci sia un motivo esoterico e imperscrutabile per cui proprio in questo momento della mia vita sto leggendo proprio quelle parole segrete del mio mito, e che in qualche modo erano destinate proprio a me.

 

I cassetti violati
Fino all’ultima virgola

Cristiano de Majo: Istintivamente ho fatto sempre fatica a leggere romanzi postumi e in alcuni casi mi sono proprio rifiutato, per esempio non ho voluto leggere Il re pallido e neanche il recente romanzo pre-Lolita di Nabokov tirato fuori dalla cassaforte di famiglia dal figlio. Ma più che per un’etica della privacy, per il fatto che un romanzo non rilasciato è un romanzo su cui lo scrittore non ha esercitato tutto il dovuto controllo artistico e quindi quello che leggiamo non è, o potrebbe non essere, quello che esattamente, e fino all’ultima virgola, l’autore ha voluto scrivere.

Edoardo Nesi: Non amo gli inediti o i manoscritti trovati nei cassetti, tantomeno quelle opere che, lasciate a metà dall’autore per una qualsiasi ragione, vengono poi pubblicate con rabberci e rammendi decisi da altri.

Vincenzo Latronico: Ricordo un passo dei I testamenti traditi in cui Kundera ragionava sulla quantità di violenza e ipocrisia insita nel gesto di un lettore che decide di calpestare la volontà esplicita di uno scrittore in nome dell’amore che prova per le sue opere. E quindi nonostante tutto il mio amore non ho mai letto Il Terzo Reich di Bolaño.

Il pubblico esiste sempre
La preoccupazione dello stile

Filippo Bologna: Ho l’impressione che uno scrittore (che ha la consapevolezza di esserlo, a prescindere dall’essere pubblicato o meno) presuppone sempre un pubblico, e sappia benissimo che quello che sta scrivendo possa essere letto in futuro da altre persone. Fa parte del gioco. Anche quando scriviamo un diario abbiamo dei lettori. Nella peggiore delle ipotesi siamo noi stessi. E spesso siamo un’altra persona da quella che l’ha scritto, chi rilegge un suo vecchio diario a distanza sa di cosa parlo.

Claudia Durastanti: I diari degli autori che ho amato di più hanno una preoccupazione costante della forma e c’è una compenetrazione molto intima tra sentimento e letteratura. Questo vale per Virginia Woolf come per Albert Camus; il confine tra taccuino di lavoro ed esperienza privata è molto labile. Il mestiere di vivere di Pavese ha un’autonomia letteraria, pensata e consapevole, che traspare da ogni pagina. I Diari di Sylvia Plath, per quanto la loro pubblicazione sia stata un’operazione più controversa, lo stesso. Col tempo ho maturato la convinzione che non si scrive per se stessi soprattutto quando si scrive per se stessi. Quando Milena e Kafka si scambiavano quelle lettere, davvero non sapevano che fine avrebbero fatto? C’è un momento, nella vita di una persona che scrive, in cui il diario privato diventa un’altra cosa. Fa parte dell’addestramento, credo.

«C’è un momento, nella vita di una persona che scrive, in cui il diario privato diventa un’altra cosa. Fa parte dell’addestramento, credo»

Antonella Lattanzi: Scrivere un testo perché sia pubblico è diverso da scriverlo per se stessi o per gli amici: per la motivazione – scrivo un articolo, un racconto, un romanzo, una lettera aperta perché ho urgenza di comunicare qualcosa, di raccontare proprio quella storia – e per il lavoro, l’impegno, il progetto che ci sono dietro un testo pensato come pubblico e che sono molto diversi da ciò che accade nella scrittura di testi pensati per essere “consumati” istantaneamente. Poi però è vero anche che le corrispondenze dei grandi scrittori – o registi, o intellettuali, o – per me sono materiale molto affascinante e da cui imparare. Per cui mi contraddico, dato che casi come i diari di Simenon, o quelli di Sylvia Plath o di Virginia Woolf o Calvino o Pavese, per esempio, per me sono stati illuminanti

Emmanuela Carbé: È difficile capire il grado di consapevolezza dell’autore, che in molti casi sa di parlare a un lettore ideale. In fondo ogni scrittura, anche la più riservata, contiene un tentativo di comunicazione con l’altro, che nel caso di una lettera non è necessariamente il vero e proprio destinatario. Non vorrei esagerare, ma penso che certi scrittori siano come i disturbatori di viaggi sul Frecciarossa: avete presente quando salite a Milano Centrale e la signora davanti fa una telefonata al marito fino a Firenze Santa Maria Novella? È chiaro che la conversazione sia a più livelli: la signora sta scrivendo oralmente un registro di famiglia. Ma la cosa più importante è: a noi interessa questa forma di scrittura? Sì, ci interessa, al di là di quello che ci può cavare fuori uno studioso e, fatte le dovute valutazioni caso per caso, al di là della vera o presunta volontà dell’autore. Ci interessa, perché queste scritture ci attaccano visceralmente alla vita.

 

Non toccate gli idoli,  la doratura rimane sulle mani
Conoscere la vita privata di uno scrittore ci condiziona?

Alcide Pierantozzi: Come si fa a parlare di vita privata? Le vite private degli scrittori spesso sono affascinanti, ma lo scrittore è sempre un tramite, una grondaia da cui stilla l’acqua del pensiero, della mente, della verità e dell’errore. La vita degli uomini, per come la vedo io, non conta nulla, se non per le emanazioni di alcuni momenti, o di alcuni loro gesti, riconducibili alla loro opera.

Claudia Durastanti: Credere nell’irreversibilità del destino, in una specie di condanna alla scrittura insita nella vita privata di un autore, mi sembra una doppia violenza, una doppia morte. Voglio pensare che si possano scrivere pagine angosciosissime in assenza di trauma e che si possano scrivere pagine serene e composte prima di un suicidio. Il rapporto tra destino, carattere e pagina scritta non mi sembra così lineare e univoco. Conoscere la vita di David Foster Wallace può dirmi molte cose sulla depressione chimica o la spietatezza del mondo accademico americano, ma non mi dice per forza di lui come scrittore, né me lo rende più caro. David Foster Wallace mi è caro per come scriveva. Vincolare un autore a una storia familiare, sia essa disastrosa o felice, mi mette tristezza. Uno fa letteratura anche per affrancarsi da questo.

Marco Missiroli: Sapere che il “trauma femminile” di Philip Roth è avvenuto per una truffa su una gravidanza da parte di una sua fidanzata mi fa vedere in modo diverso i personaggi dei suoi libri. E lo stesso è Cheever, conoscere la sua brace omosessuale, o l’adorazione privata per le piscine come via di fuga, può virare la traiettoria di lettura.

Vincenzo Latronico: Quando amo molto uno scrittore finisco per mescolare ciò che so della sua vita a cose che mi sembra si confacciano alla sua opera. Chi lo ha espresso benissimo è Dino Baldi, che nella splendida introduzione a Morti favolose degli antichi scriveva che per i greci e i romani la biografia “vera” di una persona era quella che si adeguava alle sue opere, e quindi, se la vita reale risultava noiosa o piatta, era giusto emendarla. Io faccio una cosa simile. Per restare sul tema di Bolaño, ho tutta un’aneddotica sulla genesi di 2666 che so benissimo essere spuria, ma la ripeto (e un po’ ci credo) perché sarebbe molto meglio se fosse vera.

«Per i greci e i romani la biografia “vera” di una persona era quella che si adeguava alle sue opere, e quindi, se la vita reale risultava noiosa o piatta, era giusto emendarla»

Filippo Bologna: Spesso gli artisti nel privato sono persone deludenti, raramente sorprendenti. Bisognerebbe evitare di conoscere persone che abbiamo idealizzato troppo perché altrimenti, come dice Flaubert, se si toccano gli idoli la doratura può sporcarci le dita, ovvero scoprire che l’idolo non era d’oro ma era una patacca. Ma questo non ha niente a che vedere con quello che gli artisti producono, perché la persona che conosciamo non è la stessa che crea le sue opere.

Claudio Morici: Amo moltissimo leggere testimonianze sulla vita degli scrittori (molto più dei loro prodotti privati). Per come siamo abituati a fruire delle opere in questi anni mi sembra quasi indispensabile. Ho come l’impressione di sapere molto sulla vita privata di Elena Ferrante anche se non so chi è.

Antonella Lattanzi: Per me non si dovrebbe minimamente considerare la biografia di nessuno, quando si tratta di libri, film, fotografie, coreografie, o qualsiasi fatto artistico: conta il lavoro, e basta.

Tommaso Pincio: In teoria il giudizio sull’opera non dovrebbe dipendere dal pettegolezzo. Nei fatti, però, la maggioranza di noi fa proprio quel che Pavese chiese di non fare. Rientra nella natura umana. Chi dice di essere interessato unicamente all’opera, mente.

La seduzione della vita eterna
Management dell’aldilà e narcisismo

Emmanuela Carbé: Grazie o a causa del mio lavoro ho sistemato l’archivio digitale personale in modo che possa essere conservato nel tempo e compreso da altri. Non è egocentrismo o mania di grandezza: il fatto che il mio archivio non sia letterariamente significativo e che io non sia uno scrittore da leggere tra un secolo non toglie in me la mania della catalogazione e il piacere del “tu”. È un piacere di metodo, anche se il metodo talvolta può distruggere. Il mio archivio sta diventando il tavolo di lavoro perfetto per una persona che tra cento anni volesse leggere il non pubblicato. Il vero problema è che sto creando sempre più un tavolo ordinato, costruito per essere guardato, e un archivio del genere forse non è davvero un archivio. A volte mi chiedo quanto il “metodo del tu” influisca sulla mia scrittura. Mi rispondo, per stare tranquilla, che è la scrittura ad aver costruito tutto questo.

Francesco Pacifico: Il solo pensiero che qualcuno voglia leggere la mia posta perché sono uno scrittore mi fa arrossire. E il fatto di non poter sapere se sarò uno scrittore di cui da morto si vorrà leggere la posta mi fa tremare, e parlarne in pubblico ora mi crea imbarazzo. È come il momento poco prima di capire se una donna ti vuole e si sta per concedere, solo che questo momento dura per tutta la vita adulta. La sola possibilità di essere qualcosa di più di un ex esordiente che non vende molti libri mi fa accapponare la pelle, sudare, emozionare. Quanto lavoro sottopagato stiamo regalando all’editoria in cambio di questo sogno di gloria!

«E il fatto di non poter sapere se sarò uno scrittore di cui da morto si vorrà leggere la posta mi fa tremare, e parlarne in pubblico ora mi crea imbarazzo»

Claudia Durastanti: C’è un collega, scrittore e amico, con cui intrattengo uno scambio epistolare ormai da anni. Rileggendo il carteggio in uno slancio narcisista e di sistematizzazione, ho notato quanto fosse automaticamente pronto. Non so se ci mettiamo in posa, non credo, ma sono pagine che hanno istintivamente quel respiro, quell’andatura, come se scrivendoci sapessimo. Ammesso che interessi a qualcuno, la pubblicazione di questo carteggio non mi offenderebbe. I messaggi assolutamente no. La brevità ci banalizza, e quello mi angoscia. Vorrei lasciare un ricordo migliore. Falso, magari, ma migliore.

Vanni Santoni: Spero anzitutto di essere in grado di stabilire per mio conto il momento della mia dipartita, e quindi di avere prima, se necessario, la possibilità di organizzare i miei testi, di decidere quali mettere a disposizione e quali no. Ho una casella dove mando tutto quello che scrivo, una specie di backup online. Lì magari uno potrebbe trovare qualche inedito, ma a memoria è tutta roba di cui si può fare a meno. Lettere cartacee, ne avrò scritte in tutta la vita una quindicina, ed erano tutte lettere d’amore. Se venissero pubblicate quelle, ne uscirebbe un’immagine di me molto più romantica di quella reale. Non sarebbe malaccio.

 

La seduzione dell’incertezza
Contraddizioni, psicoanalisi e Dna

Carolina Cutolo: L’unica persona che avrebbe un minimo di interesse ai miei scritti postumi o alla mia corrispondenza privata è mia madre. E il problema è che, dopo aver superato miracolosamente indenne il trauma della pubblicazione di Pornoromantica, ormai non c’è praticamente nulla di mio che mia madre possa considerare indecente o imbarazzante (ho creato un mostro). Per quanto questo suo tardivo e incondizionato apprezzamento mi renda felice il pensiero di lei che legge una mia porcheria qualsiasi e si mette ad assediare editori e pagine culturali perché la pubblichino gridando al genio mi gela il sangue nelle vene.

Filippo Bologna: Non mi dispiace l’idea che non resti traccia di me… Anche perché “la bonifica” sarebbe solo un’illusione. Le tracce restano comunque, dovunque. In ciò che abbiamo fatto nella nostra vita, nelle opere che abbiamo realizzato, fosse un libro per uno scrittore o un ponte per un ingegnere. E poi ci sono i figli, che come delle superchiavette usb custodiscono molti nostri dati sensibili senza saperlo: da ore di filmati, suoni e musica (i ricordi che avranno di noi genitori) alle sequenze criptate del nostro codice genetico racchiuso nel Dna, di cui la genetica ha ormai scoperto la password. Questo sì che mi fa paura.

Claudio Morici: Io vorrei che i miei scritti privati li leggesse mio figlio e basta, e non per motivi letterari ma di tipo psicanalitico.

 

La seduzione dell’oblio
Ipotesi di sparizioni

Alcide Pierantozzi: Tutto quello che scrivo, lo scrivo per prepararmi alla morte, per preparare questo piccolo uomo insignificante che sono all’evento della morte. E, una volta morto, le mie parole e il mio linguaggio su questa terra serviranno a ben poco. Bisogna credere molto alla vita, e a sé stessi, per pensare che le nostre parole possano sopravvivere a noi. Che sopravvivano o meno, chi se ne importa? Dove sarò io? Quale sarà il mio linguaggio? C’è forse qualcuno a occuparsi, dopo la morte degli idraulici, dei tubi che hanno sistemato? C’è qualcuno che si occupa di registrare e conservare le parole dette dai sacerdoti ai fedeli? Non è una domanda provocatoria. Io ci rifletto sempre.

Marco Missiroli: Ci vorrebbe un sistema legato al battito cardiaco, quando muori tutto il tuo traffico telematico si estingue con te.

Tommaso Pincio: Predisporrei la cancellazione di tutto, mi pare ovvio. Un morto che si fidi dei vivi o è un morto stupido o ha vissuto invano.

Vincenzo Latronico: Potendo scegliere, vorrei che fossero bruciate le mie lettere, i miei appunti e i quadernini dove nascondendole goffamente mi appunto le password per non dimenticarle, e anche tutte le stampate dei miei file, e il mio laptop e HD esterno e quelli del cloud dove Google e Facebook conservano la mia corrispondenza, e già che ci siamo anche le mie chiavi usb e il mio iPad e persino i cavi su cui le mie mail sono transitate e i dispositivi su cui sono state viste dai loro destinatari, e che da questo rogo si elevi nel cielo terso del Nord Italia una nube di fumo pesante e catramoso (per via della plastica) che scompigliata dalla brezza fresca delle Alpi si disponga a comporre in aria la parola STICAZZI.
 

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