Attualità

Tre modi di essere signora

Jackie Kennedy, Franca Sozzani e Laurie Simmons: tre film presentati a Venezia, tre diverse sfumature di eleganza, tre variazioni sul tema "donna adulta di potere".

di Clara Miranda Scherffig

Le signore hanno il potere. Me ne ero resa conto un paio di anni fa, al festival del cinema di Venezia. Dietro di me sedevano due signore che liquidarono in tre frasi un film appena presentato. Si capiva che una non l’aveva visto e l’altra aveva idee troppo rigide per capirlo. Ma furono ferocissime, caustiche, e decretarono immediata la morte di quel regista anche grazie a un incrocio di gossip. Mi voltai a guardarle: erano una nota giornalista e moglie di un politico un tempo rilevante. Avevano torto marcio, ma il modo in cui esprimevano il loro giudizio era inattaccabile.

Quest’anno di nuovo, in forme diverse, ritrovo le signore. Se fossero tutte settentrionali la sbrigherei definendole semplicemente “sciure”. In coda alle proiezioni, al tavolino del bar, alle interviste che organizzano come uffici stampa. Mi lanciano sorrisi di circostanza, prestano fazzoletti e accendini – però guai a parlarmi! Le “colleghe” e le professioniste sono sbrigative, a volte maleducate, danno del tu a tutti. Le più attempate o povere sono timide o sfacciate – dunque più digeribili però sempre avvolte da una nuvola di talco e altezzosità. Gentilissime e calorose in pubblico, gelide e spietate in privato, queste signore mi seguono anche al cinema. Franca Sozzani, Laurie Simmons, Jackie Kennedy, con le loro collane pesanti e la lucidità di chi – con più o meno charme – sa di poter esercitare (o indossare) il potere.

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La Sozzani di Franca: Chaos & Creation, documentario diretto dal figlio Francesco Carrozzini, prometteva di svelare i segreti intimi della «più grande editor di moda del mondo insieme ad Anna Wintour», e invece ripiega sull’home video con inserti sensazionalistici (tipo: clip da telegiornali per tracciare la cronologia, crescendo musicali di archi). Franca è introdotta non tanto dalle domande del figlio (a raffica, impostate), quanto dal tintinnare di gioielli che aggancia sul collo magro. Nei video di famiglia che la ritraggono ragazzina e poi negli estratti tv agli inizi di carriera il collo è sempre in vista, decorato da alcuni nei molto evidenti. Nelle immagini più recenti quei nei sono spariti. Forse eliminati con la chirurgia? È un ritocco minore, ma è come se in lei la vanità fosse una forma di bon ton estremizzato. Guardano le foto del primo matrimonio, “perfetto e borghese” interrotto dopo tre mesi: «Ma se non volevi, perché ti sei sposata?» – «Eh… Ero già vestita». Uno pensa, guarda come è sincera, non ha paura del giudizio altrui, e invece forse è solo allenata a smussare i propri difetti in pubblico. Così si mostra anche vulnerabile, ma sempre secondo i suoi canoni: quasi in pigiama, seduta sul letto con le gambe incrociate, a guardarsi le unghie appena c’è una pausa. Anche la postura scomposta comunica agio, dominio dello spazio e della conversazione: appena può si rannicchia come una ragazzina, le ginocchia sotto al mento, non più dritta e austera, ma comoda, tipo davanti al caminetto. Racconta i propri successi professionali mentre si dispiace per le mancate esperienze sentimentali (i fallimenti per lei non esistono) e dice di essere sempre andata controcorrente, di aver scampato la vita che non voleva: «Quella che va dal vestitino del battesimo fino alla tomba». E uno capisce che per Franca Sozzani sono i connotati, gli accessori, che definiscono una vita. Raggelante ma non troppo, poiché è comunque una persona “educata”.

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Laurie Simmons è di un distacco simile. Però incontrarla di persona è servito per ricordarmi che l’educazione è una convenzione sociale, più opinione che scienza (e la Sozzani applica sì il galateo, ma lo interpreta a modo suo). La Simmons è una pluri-collezionata artista americana, nonché madre di Lena Dunham e moglie di Caroll Dunham; entourage e stile di Cindy Sherman, per intenderci. A Venezia ha presentato un’opera prima, My Art, dove interpreta una sua specie di alter ego: Ellie, artista relativamente affermata e docente di belle arti a NY, trascorre l’estate negli Hamptons nella casa di un amico. Tutti intorno a lei sono «busy busy oh so busy», le dicono «hey, mettiti alla prova, imbarazzati» e lei lo prende alla lettera. Single – le signore di rado lo sono, e quando lo sono hanno amanti facoltosi, che tutti conoscono – si porta appresso un cagnetto silenzioso, con una brutta malattia degenerativa alle gambe (il vero cane di casa Simmons-Dunham). E dunque lei lo trasporta ovunque come un vitello rigido, anche in piscina, facendogli indossare un gilerino salvagente (anche la Sozzani ha cani bellissimi e di razza, però sono più di decoro che di compagnia). Al compleanno di Ellie, che nel frattempo ha prodotto un sacco di arte contemporanea, accorrono le amiche di città per una festa a sorpresa. Ecco la variante sbarazzina e creativa della signora: donne con grandi gioielli di plastica, rossetti color amarena e divertenti scarpette di gomma. Femministe. Fanno mestieri forse più tradizionalmente di sinistra, e se guadagnano tanti soldi sono artiste o ristoratrici. Magari sono un po’ più grasse delle amiche della Sozzani, perché hanno seguito i mariti viveur nell’apprezzamento dell’alcool. Alcune diventano paonazze appena esagerano, però sono più simpatiche e a volte fanno proprio ridere; in Italia potrebbero chiamarsi Gigliola, Sandra, Marisol. A New York, le amiche di Ellie/Laurie Simmons sono accademiche di Harvard: nei ringraziamenti finali del film scopro il nome di Giuliana Bruno, una studiosa italiana che ha prodotto alcune delle pagine più belle e brillanti sulla cultura visiva contemporanea. Quando le chiedo il motivo si illumina: «È la moglie del mio produttore [Andrew Fierberg]! Siamo un gruppo di amici artisti e accademici molto affiatati», racconta con calore.

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Un circolo di amici importanti, ricchi o pazzerelli, tipo quelli che passavano nel salotto della defunta Marta Marzotto: ecco cosa sembrava mancare alla Jackie Kennedy di Pablo Larraín. Il regista cileno abbandona la critica verso il suo Paese (che lo ha impegnato in tutti i film precedenti) e traccia un ritratto di Jackie (Natalie Portman) all’indomani dell’attentato di Dallas. È una Jackie senza Kennedy ma prima di Onassis, e in questo la “sciureria” che emerge è forse la più pura. Il film è impeccabile, e in continuità con lo stile Larraín, fa un uso originale e fluido del materiale d’archivio (o presunto tale). Ad allacciare il prima e il dopo dell’attentato è il famoso tour della Casa Bianca che Jackie diede in televisione nel 1962. Con la voce flebile, rotta dall’emozione, invita il popolo americano in “casa” sua, e racconta la storia di ogni angolo del palazzo. Il feticismo per gli oggetti, le moquette, le abat-jour e i vasi con piccoli bouquet da hotel continentale sono fondamentali qui, perché è l’unico modo in cui si può tramandare un’aristocrazia politica. E dopo, quando il neo-eletto Lyndon Johnson sta per insediarsi con la famiglia, il modo più profondo che ha di vivere il lutto è appropriandosi per l’ultima volta delle sue stanze (e cioè della sua identità). Fuma nelle cabine armadio, prova tutti i bicchieri di cristallo con scotch e vino, indossa gli abiti migliori, li combina per vedere come stanno, se stanno ancora. Perso lo status massimo, dichiara con rabbia: «Ci sono due tipi di donne: quelle che vogliono il potere nel mondo e quelle che lo vogliono a letto». Non potremmo essere più d’accordo e senz’altro Jackie si vede nella prima categoria. Eppure lei è stata la regina di uno spazio domestico, che come reggia principale non ha la cucina, bensì la camera da letto… Fa impressione pensare che anche nella più nobile e romanzata delle First Lady (praticamente, l’idea platonica della signora) si possa celare una massaia orgogliosa del proprio servizio da tè. O, in questo caso, del pianoforte con gambe intarsiate ad aquila, progettato da Abramo Lincoln in persona.

 

Nelle immagini, scene dei diversi film.