Attualità

In difesa della lettura

Una concezione rivista dello studio della letteratura non è nel solo interesse dei romanzieri ma di tutti

di Cesare Alemanni

Domenica 10 giugno 2012 La Lettura ha pubblicato un breve saggio di Vincenzo Latronico, titolato “Chiudiamo le scuole per amore dei libri”. Il testo analizza, criticandola, la modalità d’insegnamento della (Storia della) letteratura in Italia. Il giorno della sua pubblicazione passeggiavo per Berlino con un tremendo cerchio alla testa e così ho dovuto pazientare fino a sabato 16, quando è stato messo online sul sito del Corriere, per averlo sotto mano. Ripensandoci avrei potuto accorciare i tempi e chiedere direttamente all’autore, con cui capita di scambiarsi qualche mail, di mandarmi gentilmente il suo file .doc. La circostanza per cui, lì per lì, non mi è neppure passato per l’anticamera del cervello, mesmerizzato dall’attesa de“L’Online”, non so se si debba maggiormente attribuire a un leggero esaurimento personale, a una deformazione professionale o a una specie di mutazione antropologica del mio/nostro modo di porci alla vita fuori dalla rete. A ogni modo ora non si tratta di questo; bensì del saggio e di alcune riflessioni che ha suscitato in me.

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Per chi non l’avesse letto, la tesi che sostiene l’articolo, riassunta con l’accetta, è la seguente: l’insegnamento della letteratura, così com’è ancora oggi concepito e praticato in Italia, nel segno cioè di un rigido storicismo, rende tortuosa un’esperienza (la lettura) che dovrebbe essere “incontrata” e percepita prima di tutto come un piacere, diminuendo attivamente gli incentivi verso questa pratica, specie nei più giovani e spesso per il resto della loro esistenza. È una tesi che sposo in pieno. Del resto quella che descrive è una dinamica che ho sperimentato sulla mia persona. A otto anni leggevo I Promessi Sposi L’Iliade traendone un grande divertimento mutuato dal fatto che L’Innominato ed Ettore mi sembravano personaggi fighissimi, persino migliori di quelli dei fumetti. Sì, ho scritto proprio fighissimi e fumetti. Otto anni più tardi, otto anni farciti di asindeti e iperbati, faticavo a tenere in mano un bigino di quelle stesse opere. In compenso divoravo L’Uomo Ragno. Ho, ovviamente, delle responsabilità soggettive in questo, dovute in parte al caos che l’adolescenza instilla in quegli anni, e ora che i libri sono tornati a occupare uno spazio importante nelle mie giornate rimpiango certe svogliatezze e le relative lacune accumulate. Tuttavia se, in quel periodo e nella mia testa, la letteratura aveva finito col mischiarsi alla chimica (materia nobilissima ma che mi pare richieda predispozioni meno universali) nel flacone dei puri obblighi scolastici, presumo sia dipeso anche dal modo in cui mi è stata somministrata. Non voglio prendere la mia esperienza a metro del mondo o a misura di come dovrebbero andare le cose ma mi piace immaginare che se all’epoca qualcuno mi avesse fatto conoscere i gauchos di Storia universale dell’infamia, per nominare uno degli autori che nelle scuole non si leggono citati da Latronico, i flaconi sarebbero rimasti ben distinti tra loro. O, meno drasticamente di così; forse le cose sarebbero andate altrimenti se, anziché insistere tanto sul numero di figure retoriche contenute in un testo (una cifra che si avrà tutto il piacere di contemplare. Iscrivendosi a Lettere) o sulla rilevanza storica di un autore nella catena della Tradizione, l’insegnamento che ho incontrato avesse scelto di porre enfasi sulle qualità delle storie, dei contesti e dei personaggi. Ovvero su quelle peculiarità della letteratura che a mio parere, nel modo più accessibile e immediato, la rendono “importante” e capace di “aprire nuovi orizzonti, spiegare il mondo di oggi, illuminare aspetti eterni dell’animo umano”, per usare le parole Latronico. Ma queste sono solo supposizioni basate sulla mia esperienza che non voglio fare valere come universale. Ho notato però che, tra quanti sostengono l’insegnamento attuale come il migliore degli insegnamenti possibili, c’è chi lo fa.

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Di solito se leggo un pezzo più di una volta è perché ci ho trovato qualcosa di oscuro o di spiegato male. Al contrario, nel caso di questo saggio, il fatto di averlo letto tre volte a distanza di poche ore è direttamente imputabile alla sua trasparenza e grande efficacia argomentativa. Se si comprende a fondo la logica con cui viene portata avanti è infatti molto difficile smontare la tesi che elabora l’autore con delle contro-argomentazioni pertinenti a quella stessa logica. Una conferma l’ho trovata in alcuni commenti che ho letto in rete e discutendone a voce con un po’ di persone. La maggior parte delle obiezioni che ho incontrato più che sull’analitica, molto semplicemente erano costruite sulla pura ostinazione a considerare universale – oltre che aprioristicamente esente da difetti – la propria esperienza personale piuttosto che su una serie di pregiudizi duri a morire. Nella prima categoria rientrano la docente di Italiano che, nei commenti all’articolo, si impunta all’incirca in questo modo: «nella mia classe non succede, nella mia classe leggiamo Calvino e persino Federigo Tozzi» o l’ex studente, mio conoscente, che ricorda “caramente” il vecchio professore che «ci ha addirittura fatto leggere Pavese». (En passant: non so se avrei portato Federigo Tozzi come campione della letteratura “invogliante”). Alla seconda categoria appartengono le obiezioni del tipo: «Una certa quantità di sofferenza e tedio è connaturata all’apprendimento. Anzi è necessaria». È un’idea, intrisa peraltro di una buona dose di pregiudizio calvinista, che comunque in partenza non condivido, e che, in ogni caso, poteva forse reggere più di mezzo secolo fa ma oggi non tiene conto del fatto che da svariati decenni i libri hanno rivali molto agili, potenti e veloci – sapete quali. C’è infine chi ha utilizzato un vecchio cavallo di battaglia delle contro-argomentazioni nostrane: «Facile criticare ma quale alternative proponi in concreto?». Posto che asserire, come mi sembra faccia il saggio, che: “la letteratura così come oggi viene insegnata fa più danni che altro alla sua stessa causa“ credo sia una critica che apre a un ventaglio di soluzioni piuttosto concrete fino alla più drastica – “smettiamo di insegnarla” – che forse non sarà un’alternativa ma è di sicuro una proposta, sono convinto che il costume mentale che dice “se non hai già un dettagliato disegno di legge in mente, evita di esprimerti” sia esattamente lo stesso per cui in Italia si procede da tempo alla tutela degli status quo, per la semplice ragione che costerebbe troppa immaginazione e fatica collettiva provare a metterli in discussione e magari migliorarli. Da noi, per essere preso sul serio il “critico” sembra debba possedere qualità da Deus ex machina – non è sufficiente che noti la fallacia di un meccanismo deve pure saperla aggiustare anche se/quando questo esorbita le sue competenze – altrimenti taccia e si vada avanti così.

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La verità è poi che i romanzi e la letteratura sono solo una parte – a mio giudizio – del problema. Il problema è proprio la lettura, intesa come atto pratico e in senso lato. Instillando negli adolescenti – tramite la sofferenza e il tedio che a quanto sembra qualcuno giudica addirittura necessari all’apprendimento – la repulsione per il minimo di impegno che richiede l’immersione in uno scritto non si fa solo un danno ai romanzieri di ieri, oggi e domani. Si fa un danno alla qualità dell’informazione, ai divulgatori scientifici, alla soglia di attenzione civile. Si fa molto attivamente il gioco di chi offre materiale più allettante a bassi costi di concentrazione. Un tempo la letteratura era considerata “la meno seria tra le cose serie”. Si leggevano romanzi o poemi anche allo scopo di prendere confidenza con l’atto stesso del leggere per poi poterlo rivolgere verso altre discipline più “impegnative”. La narrativa era (e può, anzi deve, ancora essere) una porta d’accesso al mondo del testo in senso più ampio. Ribaltando questa sequenza e rendendo romanzi e poemi ostici come formule chimiche quella porta resta chiusa, per molti e spesso per sempre.

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C’è poi, appunto, la questione della “categoria del piacere” che secondo alcuni non è sufficiente a tenere in piedi il discorso e sarebbe in ogni caso estranea ai compiti e ai fini della scuola. Questi dicono: «Se un ragazzo è sufficientemente motivato e spinto al piacere della lettura, i libri che vuole leggere li troverà da solo, in libreria o sullo scaffale dei genitori. La scuola deve fare altro. Deve sistematizzare delle conoscenze». È chiaramente una visione della realtà aristocratica e per pochi e non sono sicuro che le sue origini abbiano a che fare col solo Gentile, francamente. Banale ma vero: non tutte le famiglie sono uguali e non tutti i tredicenni passeggiando per casa in un afoso pomeriggio di giugno e non avendo di meglio da fare quel giorno, giungeranno all’inatteso incontro con il romanzo che gli aprirà la via alla lettura e alle librerie. Ed è qui che la scuola dovrebbe, sì sto per fare una proposta, assolvere a un nuovo compito, più consono ai tempi e alla realtà presente, sostituendo gradualmente lo studio della Storia della letteratura con una forma d’introduzione alla lettura che passi dal potenziamento e svecchiamento delle biblioteche degli istituti, dall’ascolto degli interessi generali dei singoli studenti in modo da poterli indirizzare vero letture mirate a risvegliare quegli interessi, prevedendo ore dedicate a un’immersione acritica e personale in testi scelti liberamente dal singolo. Se un giorno ne avrò uno, la scuola in cui mi auguro potrà andare è una scuola che metterà, o almeno ci proverà, in mano a mio figlio quell’unico primo libro giusto per lui. In fondo, se lo vorrà, per l’ipotassi avrà tutta la vita davanti.