«Ho raccontato tante storie solo per cavarmi d’impiccio, per noia, per fare spettacolo! Non saprei mai ricordarle tutte, ma sono sicuro che mi perseguiteranno. O perseguiteranno il mio fantasma», dice Orson (Welles) a Henry (Jaglom), e lo dice sapendo che quello ha un registratore in borsa. Lo dice sceneggiando quella conversazione di cui è interprete e personaggio e regista e. A pranzo con Orson (Adelphi) è meraviglioso come sanno esserlo solo gli artifici degli esibizionisti, e vero in quel modo che insegnava Il falò delle vanità: mentire per far trionfare la verità. Da quando liquida Richard Burton che ha avuto l’ardire di interromperlo mentre mangiava, a quando uccide con tenerezza Rita Hayworth – «Dovevo metterci tutto l’impegno per scoparla. Era diventata… era diventata un’icona del desiderio, e voleva soltanto essere una casalinga» – non c’è un momento in cui Orson Welles non posi. Magnificamente.
Questo mese ho finito un sacco di libri e questo mi riempie di gioia. La maggior parte di essi li ho letti mentre stavo in campagna, senza accesso a internet, e quindi probabilmente la mia gioia non vale, è come se una persona con problemi di peso si congratulasse per la sua forza di volontà dicendo “sono felice di aver mangiato tanta verdura questa settimana mentre stavo chiuso a chiave in casa e non potevo uscire né ordinare cibo al telefono o su internet e nel frigo non avevo altro che verdure”. Detto ciò, i libri che hanno potuto godere della mia assenza dallo schermetto della morte (il nomignolo per il mio iPhone) sono stati H is for Hawk di Helen Macdonald, che è un libro di non-fiction o un memoir o un romanzo realista, non so bene, ormai, come definire i libri belli, ma insomma parla di falconeria, di una donna a cui muore il padre, dei suoi tentativi di avvicinarsi a lui con la falconeria, di un falco (che poi in realtà è un Goshawk, che in italiano si chiamano astori, non falchi), specifico che si chiama Mabel, e della difficoltà che si incorre cercando di addestrarli, e parla anche di T.H. White, quello che ha scritto Re in eterno, che ha scritto anche un libro su un astore pure lui, e che era un omosessuale represso molto triste come poi era abbastanza tipico per gli omosessuali a quei tempi.
Poi ho letto anche i racconti di Donald Antrim intitolati The Emerald Light in the Air che sono bellissimi e non c’entrano niente con i tre romanzi sperimentali e Barthelmiani per cui Antrim è diventato famoso (su tutti I cento fratelli, che ho letto anche lui questo mese, ed è esilarante), piuttosto sembrano una specie di incrocio tra l’amore per la luce e un certo tipo di melanconia che associo a John Cheever con un approccio alla malattia mentale e la moralità che ha un che di russo ed è tutto molto classico ed elegante e pulito e davvero davvero triste, al punto che penso che si potrebbe anche usare l’aggettivo Chekoviano se proprio volessi essere il tipo di persona che usa parole come Chekoviano: nel senso che non sarebbe scorretto quanto, magari, inconveniente. Ne ho letti anche altri, comunque: due collezioni di racconti di Kelly Link, che è un genietto, e il carinissimo Dept. of Speculation di Jenny Offill che in italiano si chiama Sembrava una felicità, che oggettivamente è un titolo molto peggiore dell’originale, però capisco anche che Dipartimento della speculazione non suona benissimo nemmeno lui. Inoltre ho provato (per la terza volta) a finire Parla, ricordo di Nabokov che è difficilissimo da leggere ma porca vacca, è talmente bello e ben fatto che gli altri libri al confronto sembrano dei pensierini delle medie.