Attualità

I giochi di Putin

La legge "anti-gay" varata da Putin, la volontà di affermare una tradizionale "Normalità Russa", il supporto della Chiesa ortodossa. Sullo sfondo, la giustificazione della violenza. Il complicato rapporto tra Russia e omosessualità.

di Manuel Peruzzo

Non è vero che la Russia è illiberale. Chiunque volesse protestare ai prossimi Giochi olimpici invernali, ospitati a Sochi dal 7 al 24 febbraio nella democrazia sovrana di Putin (copyright Vladislav Surkov) potrà liberamente farlo nella «zona di protesta», accanto alle altre manifestazioni che hanno superato l’approvazione della polizia. L’unica scomodità è che la zona si trova nel villaggio di Khosta, a undici km dalla sede olimpica più vicina, nel bel mezzo del nulla, e le dimostrazioni non devono riguardare direttamente le Olimpiadi. Non sappiamo se verrà effettivamente utilizzata, ma tra terroristi ceceni, esorbitanti costi dovuti alla corruzione (oltre 50 miliardi di dollari: già un primato) e leggi anti-propaganda gay, qualche critica è prevista. Manifestate pure; lontano da qui.

Certo, si sa che a Putin non piace discutere troppo. Ci sono voluti quattro anni per scegliere il logo e la mascotte dei Giochi, che poi, per accontentar tutti, sono diventati tre: un coniglio, un orso e una tigre. Invece per stabilire dove svolgerli, i Giochi, non c’è stato un solo giorno di discussione in Parlamento: Putin voleva portare tutti in vacanza con sé nella termale Sochi, suo luogo prediletto di villeggiatura (prima di lui, lì: Stalin). Sì, non è certo il luogo adatto per gare sciistiche — c’è una media di dieci gradi in questo periodo— ma almeno: «a Sochi i gay non ci sono», come ha ricordato il sindaco della città, Anatoly Pakhomov. Sochi è il luogo adatto per mostrare la nuova Russia moderna, forte, moralmente retta, gloriosa, e gay-free. O così dicono i russi.

Yelena Mizulina, presidente della commissione sulla famiglia, le donne e i bambini, e autrice del disegno di legge, sostiene che sia troppo tardi per salvare gli adulti omosessuali, ma che la Russia ha ancora una chance di crescere una generazione pura.

A giugno 2013 Putin ha approvato le leggi per impedire la propaganda omosessuale delle relazioni non tradizionali. Nonostante, come scrive correttamente Julia Ioffe sul New Yorker, non sia chiaro cosa si intenda per “propaganda” (un bacio? un braccialetto colorato? cantare Born this way?), l’obiettivo chiaro è quello di rimuovere l’omosessualità dal discorso pubblico. L’operazione del Governo è stata chiarita da una candida Yelena Mizulina, presidente della commissione sulla famiglia, le donne e i bambini, e autrice del disegno di legge, la quale ha sostenuto che fosse troppo tardi per salvare gli adulti omosessuali, ma la Russia ha ancora una chance di crescere una generazione pura.

Decisamente troppo tardi per salvare Tchaikovsky, il cui biopic è stato revisionato cinque volte prima della messa in onda, per poter epurare l’omosessualità dalla sceneggiatura. Troppo tardi anche per salvare un giornalista di un’emittente di proprietà del Cremlino, KontrTv, che ha portato in studio alcuni Drag Queen e ha fatto coming out come forma di protesta contro le leggi anti-propaganda (gli hanno interrotto la trasmissione, lo hanno licenziato via sms e hanno rimosso tutti i suoi video dal sito. Cancellato). Troppo tardi per molti altri che hanno storie simili di discriminazione sul lavoro, licenziamenti e maltrattamenti. Lo Stato è solo una delle tre facce dell’omofobia russa, le altre sono la chiesa Ortodossa e la frangia estremista.

Così, mentre Putin accarezzava l’ennesima tigre drogata nei media russi, per rafforzare l’unica cosa che sembra preoccuparlo, cioè il suo consenso come macho Zar-Cacciatore-Judoka (nel 2008 una è morta per essere stata sovra-sedata per consentire il siparietto del macho coraggioso), in Gran Bretagna la BBC trasmetteva Hunted, un documentario realizzato da Liz Mackean, una reporter britannica. «Solo l’1% della popolazione gay osa vivere apertamente. Penso ci sia un problema di visibilità», dice Mackean, che ha filmato le vittime delle violenze (trovate tutto in un bel reportage pubblicato da GQ)delle gang chiamate Occupy Pedophilia. Sono gruppi di attivisti anti-gay che da anni perseguitano gli omosessuali in modo violento. Esistono oltre 450 gruppi online di gang formate da «semplici cittadini russi», come ama definirsi l’area radicale neo-nazi, spesso vicina alla chiesa ortodossa. I quali creano falsi profili su VK.com (il Facebook russo) e danno appuntamenti a ignari omosessuali; poi all’incontro li picchiano, gli urinano addosso, li costringono a fare coming out (fanno cioè outing, ovvero li obbligano a dirsi omosessuali); infine telefonano ai genitori delle vittime raccontando ciò che sta succedendo, di quanto depravati, anormali e corrotti siano i loro figli. Filmano tutto e pubblicano online, assicurandosi che il giorno dopo i compagni di classe di ragazzi spesso minorenni sappiano cosa succede a dei degenerati. In una parola, li umiliano. Sono autorizzati a farlo dall’idea promossa da Putin che dice loro: il nemico è interno, sfogatevi pure: è legittimo.

Occupy Pedophilia sono gruppi di attivisti anti-gay che da anni perseguitano gli omosessuali in modo violento. Sono gang formate da «semplici cittadini russi», come ama definirsi l’area radicale neo-nazi, spesso vicina alla chiesa ortodossa.

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Il problema del moralismo è che è facilmente confuso con la moralità. In un libro del ‘99, The Trouble with Normal: Sex, Politics, and the Ethics of Queer Life, il teorico queer Michael Warner discute di ciò che chiama etica della vergogna sessuale. La prima esperienza che un omosessuale ha con l’indecenza sessuale, con la profonda vergogna, è in famiglia. Ogni bambino viene educato con un’idea di normalità eterosessuale che produce in lui un senso di straniamento, un segreto profondo. Crescendo gli si dirà che è chiuso nell’armadio (closeted, noi diremmo «velato»), come se dicesse delle menzogne, e ci si aspetta da lui/lei una dichiarazione di orientamento sessuale. La costruzione della normalità è un processo sociale e culturale che crea per opposizione anche il concetto di anormalità (storicamente identificato in sesso al di fuori del matrimonio, sodomia, in luoghi pubblici e così via). Ne sa qualcosa Clinton, il cui scandalo sessuale, citato come esempio di uso politico della vergogna, ha pubblicamente svergognato il Presidente. (Fare sesso con una donna che non è tua moglie, in uno spazio che non è quello domestico e senza procreare, ma lasciando «macchie umane», come scrive Pilip Roth, usate per umiliarti pubblicamente, in un clima di paranoia generalizzata).

«Quando si parla di sesso alcune persone rischiano molto di più di un semplice imbarazzo, possono essere picchiate, stigmatizzate, rinchiuse, fino a che la vergogna rende il piacere inammissibile, indicibile e impensabile» scrive Warner. L’idea di Putin e dei gruppi anti-gay non è neppure più quella di creare visibilità-sorveglianza-repressione, come in anni dell’Unione Sovietica, ma di reprimere totalmente la visibilità, in modo cristiano:  infilare gli omosessuali nell’armadio e poi chiuderlo a chiave. Fai quello che vuoi ma se lo fai in pubblico non aspettarti che la polizia ti protegga dai picchiatori. (I ragazzi spesso meditano di emigrare, anche i genitori omosessuali con figli sono molto preoccupati, le nuove leggi infatti rendono illegali le adozioni da persone omosessuali, anche straniere).

La costruzione della normalità è un processo sociale e culturale che crea per opposizione anche il concetto di anormalità.

Quando la campionessa Ylena Isinbayeva sostiene che «noi Russi ci consideriamo persone normali. Viviamo uomini con donne e donne con uomini» sta utilizzando una semantica  eteronormativa. La parola russa per riferirsi all’omosessualità: “nenormal’naia liubov” (amore anormale) in opposizione con eterosessualità “normal’nye liudi” (amore normale). Come scrive Brian James Baer in Other Russias: Homosexuality and the Crisis of Post-Soviet Identity, l’associazione omosessualità/anormalità in Russia legittima l’idea dell’omosessuale come deviato, capace di ogni atto non normale. Il «Siete benvenuti, ma lasciate in pace i bimbi», diretto ai gay stranieri è da leggersi in questo modo.

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La Russia è sempre stata omofoba, seppure in modi e forme differenti. Nel maggio del 1934 Harry Whyte, un comunista inglese e collaboratore al Moscow Daily News, scrisse a Stalin chiedendogli di giustificare una recente legge: «Può un omosessuale essere considerato una persona adatta a far parte del Partito Comunista?». Stalin scarabocchiò sulla lettera: «Un idiota e degenerato. Agli archivi». La legge anti-omosessuale stalinista che incarcerava i gay è rimasta attiva in Russia fino al 1993.

Nel 2006, durante il primo Gay Pride a Mosca, alcuni uomini hanno fatto irruzione con del gas lacrimogeno durante una lettura sugli effetti dell’impigionamento e della tortura di Oscar Wilde sulla moglie e i figli. Sono entrati urlando: «Russia, Russia, Russia» e «Homosexual Propaganda». Ogni anno si ripete lo schema: si organizza il Gay Pride, si sfila per pochi minuti prima che un manipolo di partecipanti venga picchiato dai «normali cittadini russi» e portato via dalla polizia. Ogni anno. Almeno prima che il Cremilino, nel 2012, decise di bandire per cento anni ogni Gay Pride. Per risolvere l’incomodo di impedirlo con la forza.

Per Lucia Sgueglia, giornalista inviata in Russia, si cerca un nemico interno. Raggiunta via mail ci dice: «È un tentativo di rivoluzione conservatrice che guarda preoccupata al drammatico crollo demografico della Russia. Per questo si allea con la Chiesa: l’uno aiuta l’altro»; e ancora: «Non è solo questione di gay, è questione di Altro, di diversità. La politica non ci ha lavorato affatto dal 1992 e questo è il risultato». L’insicurezza politica, sociale, economica e la ricerca d’identità culturale offrono a Putin l’opportunità di ricreare un’ideale di macho reazionario legato a valori di una Russia mitologica da Grande Impero. Dopo un periodo post caduta del muro, di importazione di valori occidentali e di stili di vita, sembra che i russi si siano trovati senza guida, senza sicurezze, spersonalizzati nella corruzione dei consumi culturali glamour americani.

Gli omosessuali per la Russia di Putin sono un’importazione occidentale, un prodotto come la Coca-Cola o Lady Gaga, come scrive lo studioso Brian James Baer.

Gli omosessuali per la Russia di Putin sono un’importazione occidentale, un prodotto come la Coca-Cola o Lady Gaga, come scrive lo studioso Brian James Baer. Non solo sembra che la Duma consideri il fenomeno come un virus proveniente dall’Occidente, insieme alla prostituzione, la pornografia, l’abuso di droghe e le catene di fast-food, ma la nazione si è anche definita sessualmente contro i modelli permissivi occidentali. Baer riprende una nozione di Dan Healey di geografia della perversione, dove compara l’innocenza della Russia tra la «civilizzata» Europa e un decisamente «primitivo» Est. Questo permette alla Russia di immaginarsi come naturalmente eterosessuale. Putin non fa altro che insistere sulla visione «iper-conservativa della Russia» e di «russianness». L’affiliazione della chiesa Ortodossa, come dice all’Atlantic Masha Lipman, del Carnegie Moscow Centre, un centro di ricerca politica, è per aiutarlo ad aumentare consenso nelle aree rurali, sì, ma anche per mutuarne i valori che servono per mantenere connesso il tessuto sociale.

Ma cosa accadrà quando l’occidente gay-friendly, coi suoi valori libertari ed egualitari, si trasferità nella kitsch e illiberale Sochi? Il Governo, in modo molto contraddittorio, sostiene che tutti potranno esprimere le proprie opinioni, ma che ogni singolo caso verrà considerato in base alle leggi russe. Come dire: provateci. Obama, il presidente che sostiene i diritti degli omosessuali americani, e un capitalismo democratico Occidentale, ha scelto Billie Jean King, ex campionessa di tennis e icona del movimento gay, per la delegazione olimpica, e Caitlin Cahow, giocatrice di hockey e omosessuale dichiarata per la cerimonia di chiusura. Meglio esserci per mandare un messaggio libertario, o per dirla con Rachel Maddow, anchor di Msnbc: «Essere aperti sull’orientamento sessuale in Russia in questo momento è come salutare Vladimir Putin con il dito medio».

Buttare vodka per strada come fanno le associazioni arcobaleno capitanate dall’attivista Dan Savage, andare in giro con un bracciale arcobaleno o dichiararsi apertamente omosessuali cambierà qualcosa per i diritti dei russi? Sul serio il Financial Times è così ingenuo da pensare che: «L’unico modo per minacciare una gara olimpica è con un boicottaggio», e sostenendo che le misure di protesta sono state blande e inefficaci per colpa di un Occidente debole? Ognuno deve essere libero di fare le battaglie culturali che crede, ma che queste cambino una percezione antropologica è troppo.

Julia Ioffe del New Republic, da sempre molto critica della politica di Putin sostiene, molto pragmaticamente, che con le questioni della politica interna Putin non tenga in considerazione nessuno straniero («Putin does what he feels needs to get done. Putin doesn’t give a shit»), e che qualsiasi boicottaggio o forma di protesta non servirà a nulla: «In definitiva, queste sono cose che le società devono capire da sole. E per quanto queste leggi e immagini di gay russi picchiati e uccisi per il loro orientamento sessuale ci sconvolgano, dobbiamo riconoscere, pur non chiudendo gli occhi, che c’è un limite alla quantità di cambiamento che possiamo costringere in casa di qualcun altro».

 

Tutte le foto sono tratte da putinarainbow.com