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Donne che odiano le donne

Sull'Atlantic Elizabeth Wurtzel attacca le casalinghe: se gli uomini votano Romney, è colpa loro

27 Giugno 2012

Gli scrittori antipatici si dividono in due categorie: quelli che fanno gli antipatici e proprio per questo finiscono per starti irresistibilmente simpatici, in base a un teorema che io riassumo come “sotto sotto tutti vorremmo essere dei grandi stronzi, solo che non tutti abbiamo il coraggio di esserlo” e che qualcuno ha analizzato molto meglio di me dopo essersi visto cinque serie di Med Men; poi ci sono quelli che sono antipatici e basta, ma proprio tanto.

Elizabeth Wurtzel, meglio nota come “quella che ha scritto Prozac Nation,” rientra nella seconda tipologia.

La scorsa settimana ha firmato un post per l’Atlantic che ha alzato un bel polverone e che si è guadagnato cinquemila “Like,” intitolato “1% Wives Are Helping Kill Feminism and Make the War on Women Possible.” Sottotitolo: “Being a mother isn’t a real job — and the men who run the world know it.” Si tratta, come avrete intuito, di un attacco contro le mogli dei ricchi, che non lavorano, e più in generale contro le donne che scelgono di abbandonare la carriera per il matrimonio, i figli (o, come sostiene l’autrice, per la pedicure).

Non lavorare, sostiene Wurtzel, è anti-femminista. Punto. Non solo: è una scelta profondamente egoista. La sua argomentazione si basa su tre punti. 1) Le donne che dicono di lasciare la carriera per i figli mentono: in realtà vogliono dire che lasciano la carriera per dedicarsi a corsi di yoga e all’estetista mentre la tata si spupazza i loro pargoli. 2) Fare la mamma, comunque, “non è un vero lavoro.” 3) Le donne che rinunciano alla carriera mettono in difficoltà le altre donne. A cominciare da quelle che invece rimangono sul posto di lavoro, e che a questo punto si trovano in una situazione di netta minoranza.

La mia reazione al primo punto è stata: WTF?!, è pieno di casalinghe che passano il loro tempo, be’, a fare le casalinghe – e questo perché, particolare non trascurabile, il mondo è molto più grande del Connecticut.

Quanto al secondo punto, la mia prima reazione, anche in questo caso, è stata WTF?! Non solo fare la mamma è un lavoro, ma è anche piuttosto faticoso. Credetemi, passare una giornata di otto ore scrivendo ed editando articoli altrui non consuma neppure lontanamente le energie richieste da due ore al parco giochi con un bimbo in età da asilo.

In realtà il discorso su Wurtzel è più complesso. Fare la mamma a tempo pieno non è un lavoro, sostiene, perché non genera reddito, ergo ti costringere a dipendere da qualcun altro. “Le vere femministe non dipendono dagli uomini,” sentenzia Wurtzel. Il femminismo si basa sul concetto di uguaglianza tra uomini e donne e visto che viviamo in una società in cui “se non puoi pagarti un affitto non sei un adulto,” chi non ha una fonte di reddito indipendente non può essere “uguale” a chi ce l’ha. Libere di restare a casa, insomma, ma poi non chiamatevi femministe, del resto nessuno ha mai detto che il femminismo debba essere un’ideologia inclusiva.

Quasi quasi l’autrice mi ha convinto. Anche se mi chiedo quanto questa logica del “se non puoi pagarti un affitto non sei un adulto” possa essere applicata all’Italia. Se così fosse, vorrebbe dire che una buona fetta dei miei amici subtrentenni – maschi efemmine, indistintamente – non sono adulti… E i disoccupati? E quelli che uno stipendio ce l’hanno ma non riescono a pagarci l’affitto? Un po’ troppo calvinista come discorso, anche se bisogna ammettere che ha una sua coerenza.

Poi c’è il terzo punto. E, cioè che le donne che scelgono di lasciare la carriera per la famiglia, probabilmente senza rendersene conto, finiscono per rendere la vita più difficile a quelle che invece nel mondo del lavoro rimangono. “Queste donne sono la ragione per cui i loro mariti pensano che tutte le donne sono stupide, e onestamente non posso dare loro torto,” scrive l’autrice. La sua tesi è che meno femmine ci sono su un posto di lavoro (specie in posti di rilievo) più gli uomini tendono a “vedere chiunque non sia maschio come la loro segretaria o assistente.” Poi vanno a casa e fanno una donazione a Mitt Romney.

E con questa Wurtzel si è guadagnata definitivamente un invito nel pantheon delle donne che odiano le donne. Il problema è che, dati alla mano, la sua tesi non è poi così campata in aria. Una ricerca pubblicata in marzo – il risultato di un lavoro congiunto di studiosi di Harvard, NYU e University of Utah – dimostra che gli uomini sposati a donne che non lavorano tendono ad avere più preconcetti verso le loro colleghe. E che, quando sono in posizione di farlo, preferiscono non assumere candidati di sesso femminile.

La stessa ricerca, che Wurtzel non cita, era stata invece commentata in un altro post sull’Atlantic. A differenza di Wurtzel, l’autrice del commento Gayle Tzemach Lemmon si guarda bene dall’addossare alle mogli la colpa delle vedute ristrette dei mariti. Si limita a trarre la conclusione che «when it comes to shaping views on women and work, there’s no place like home». Vero. Perché, piaccia o non piaccia, il modo in cui ci comportiamo fuori di casa dipende anche dalla forma mentis plasmata dalla nostra vita familiare. Questo non significa, certo, che gli uomini (o le donne) che provengono da ambienti tradizionali debbano per forza essere sessisti sul posto di lavoro, e non significa nemmeno che Wurtzel abbia ragione quando sostiene che rimanere a casa danneggia le altre donne, e men che meno quando dice che se ci sono degli uomini che votano Romney è per “colpa” delle loro mogli. Significa che quando qualcuno cerca di convincervi che il privato non è politico, o è in mala fede o vive nel Paese delle Meraviglie.

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