Attualità

Il cielo in una scatola

Abbiamo provato Oculus Rift, il visore di realtà virtuale: ecco cosa abbiamo visto.

di Matteo Trevisani

Oculus Rift

Ho ricevuto il primo Game Gear che avevo nove o dieci anni. Il mio videogioco preferito era G-Lock, un simulatore di volo sviluppato in soggettiva in cui dovevi sparare agli aerei nemici. Adoravo quel gioco. Le batterie duravano pochissimo e così per giocarci mi portavo dietro ovunque il trasformatore, che pesava più del Game Gear stesso. Ci giocai tanto da fonderlo dopo due settimane: ero estasiato dalla musica a otto bit, dalle prospettive a piattaforma fissa, dalla scritta verdina del Game Over. Doveva essere il 1996 e io guardavo a ripetizione Il piccolo grande mago del videogames, non vedevo l’ora di avere un computer e avevo letto tre volte la riduzione per bambini di Apollo 13. Più ci giocavo più non avrei desiderato fare altro: educando la mia capacità di immaginare il futuro, in maniera del tutto inconsapevole capivo la portata di ciò che tenevo in mano, e subivo con fascinazione assoluta e religiosa il salto qualitativo che ti faceva passare dai trenini giocattolo a quello, dai libri game a quello.

Dopo vent’anni di attesa e alcune delusioni più ludiche che virtuali, la settimana scorsa è arrivato a casa Oculus Rift, il visore per realtà virtuale della compagnia di Palmer Luckey acquistata da Facebook nel 2014 per due miliardi di dollari. La prima impressione è stata vagamente apocalittica, non del tutto dissimile a quella che proverebbe un bambino nato a metà degli anni Ottanta davanti alla sua prima console portatile. Ti dici: «Questa cosa cambierà tutto, niente sarà più lo stesso, io non sarò più lo stesso. Qualsiasi cosa che faranno d’ora in poi dovrà competere con questo».

Visore Realtà Virtuale

Oculus Rift è tremendamente semplice. Ti infili il casco, avvii l’applicazione desktop e ti ritrovi in pochi secondi seduto su un tappeto persiano in una specie di open space minimal arredato da quello che immagini debba essere un architetto giapponese. Se alzi la testa, si vedono dei ciliegi in fiore. Alla tua destra crepita il fuoco in un caminetto, dietro di te c’è un tavolo per la colazione e davanti ti sfilano le applicazioni che puoi selezionare con breve movimento della testa e avviare col joystick. Tutto è pixelato, è vero, molto realistico e poco reale, in una sorta di deteriore interpolazione platonica tra le cose e le loro copie. Ma è un mondo nuovo, senti che puoi dargli un minimo di credito, che la cosa non funzionerà come si deve se non le cederai il  controllo. Quindi ti sforzi, in una suspension of disbelief tremenda, che non riguarda più la trama di un libro cyberpunk ma ciò di cui hai esperienza con almeno due dei tuoi sensi, ci credi, ti vedi veramente lì dentro.

Il fatto che le applicazioni siano categorizzate a seconda del livello di interazione ti lascia intravedere scenari futuristici ben al di là di quello che stai effettivamente vivendo, ma per ora va bene così, ti dici che stai esperendo la cosa più vicina a Matrix che esista nel mondo e vai avanti, cominci con una cosa che si chiama Dreamdeck, una specie di brevi video di presentazione (Video? Che parola si usa ora? Ambientazioni?) delle possibilità che il dispositivo offre, tanto per prendere confidenza. Così vi ritrovate all’ultimo piano di un grattacielo in una sorta di Gotham City vagamente steampunk, o a tu per tu con un T-Rex in scala ridotta, o a fare ciao ciao con una mano invisibile a un alieno dalla faccia simpatica su un pianeta grigio. Poi scarichi la simulazione dell’allunaggio e per un’ora buona sei un astronauta al fianco di un Neil Armstrong un po’ squadrato che a un certo punto ti porge i comandi e ti fa guidare il Lem. Mentre manovri la navicella sul braccio noti il distintivo dell’Apollo 11 e se ti affacci da uno degli oblò vedi la luna a volo d’uccello, e dietro di lei lo spazio infinito, per quanto spazio infinito può esserci in 10 euro e 5 gigabyte. Si chiamano esperienze di educazione immersiva e nello store dedicato stanno spuntando come funghi.

Realtà virtuale Oculus Rift

Quale che sia il mondo in cui ti ritrovi per i primi dieci minuti non fai altro che guardarti intorno, a 360 gradi, provando ad afferrare quello che vedi intorno. Poi scarichi gli altri giochi, per ora i più gettonati sono i labirinti horror e gli sparatutto, e ti immagini che da lì ad avere un fucile il passo sarà breve. Almeno speri. Saggi pillole di futuro, ti rendi conto subito che sarà presto un nuovo standard, qualcosa che sposta l’asticella su una nuova scala, quello che Kuhn chiamerebbe un nuovo paradigma.

Ovviamente Oculus Rift e, insieme a lui, gli altri visori per la realtà virtuale in commercio non sono ancora al meglio delle loro potenzialità. Anche se come nel mio caso sei un amatore pigro e non un tecnico ti accorgi subito che la tecnologia è embrionale e che i margini di sviluppo sono ampissimi. Non si ha mai l’impressione di trovarsi in una realtà diversa da questa, l’interazione col mondo virtuale è limitata e non slegabile dall’utilizzo di un joystick ma passate le prime ore si ha la sensazione che non si stia proprio male, lì dentro e che la dimensione ludica sarà importante ma non l’unica. Zuckerberg stesso, nel post in cui annunciava l’acquisto della compagnia si immaginava qualcosa che andasse oltre, e che prevedesse l’interazione in campo medico, educativo, sociale. Ma tu non puoi non immaginarti il sesso, guanti con circuiti che replicano le terminazioni nervose, tutto un nuovo modo di intendere la tua seconda vita e in ottica transumanista perfino la concreta possibilità di un mind uploading che vinca la morte una volta per tutte. Ti dici che presto dovrà svilupparsi una nuova etica per tutto quello, una nuova giurisprudenza, e forse in un eccesso di ottimismo circa lo sviluppo tecnologico prossimo venturo ti domandi come si farà a non subirlo, come si farà a discernere qui da lì.