Attualità

Cinedispacci dal fronte

La mostra dell'Istituto Luce a Roma ci rimanda a un'Italia rurale e fascista di propaganda, quadretti pontini creati ad hoc, telecamere e truccatrici sempre al seguito del duce. Un po' di immagini, e di storia.

di Michele Masneri

Quando c’era lui, caro lei. In uno degli antri più surreali di Roma, pancia del paese ma pancia anche del Vittoriano, del monumento più vilipeso in patria e più ammirato da turisti che sfidano i primi freddi – ecco il Luce, la mostra dell’Istituto Luce, in questo basamento del mausoleo a Vittorio Emanuele, monumento che vanta molteplici tentativi di definizione – la macchina da scrivere, la torta nuziale, il mammozzone – oggi desolato spartitraffico di un traffico monco, con l’autostrada del Sole dei Fori Imperiali chiusa per pedoni in corso.

Ecco dunque questa mostra dedicata all’Istituto fondato nel 1924, con i consueti allestimenti da scuola media, cartonati e cartongessi e pannelloni didattici delle mostre qui – però sempre gratuite – e la sensazione sempre strana di baloccarsi sotto i piedi del Milite Ignoto, oltre che sotto tutto quel marmo non di travertino ma di Botticino, provincia di Brescia, con polemiche d’epoca tipo Expo, perché il presidente del Consiglio d’allora era il bresciano Giuseppe Zanardelli accusato di favorire elettorati e fatturati padani.

Dunque eccolo, il Luce, acronimo furbetto voluto dal Duce per L’Unione Cinematografica educativa, e il fascismo ne viene fuori innanzitutto come la dittatura più cinematografica di tutte; dal 1926 i film del Luce sono obbligatori non solo ai cinema, ma anche nelle piazze, nelle scuole, nelle sedi di partito. Nei traghetti, per incolpevoli turisti insulari. Il cinema di Stato non serve solo a indottrinare le folle ma anche come tutorial anche molto efficace per masse rurali in tempi non ancora di slow food e Eataly e orti urbani; qui, in mostra, filmini molto chiari su come dare antiparassitari e diserbanti tossicissimi senza rimetterci nel breve periodo le penne (nel lungo, si è tutti morti, alla faccia di Vandana Shiva).

Così, ecco suggerimenti precisi: occhialetti da aviatore e cotone idrofilo nelle orecchie, perché «insegnare ai contadini non è semplice, e non perché essi siano tardi ad apprendere (scarpe grosse e cervello fino) ma perché le spiegazioni devono possedere, nella loro semplicità descrittiva, una potente efficacia descrittiva e dimostrativa», secondo la rivista Lo Schermo, d’epoca, qui in mostra.

Il cinema di Stato non è solo rurale, ma anche stradale: dal 1926 migliaia di “cinemobili”, apette e camioncini dotati di proiettori e gruppi elettronici battono le province e i villaggi per eternare l’etica e l’estetica country del Duce (in campagna, prima dei collant berlusconiani, setting precisissimi su come deve essere ripreso il Duce nei campi, nelle varie battaglie del grano: mai solo, isolato dalla folla; mai a stringere mani; mai con un numero di gerarchi intorno superiore a 4-5, tutte norme by Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista, che sovrintende come una Mity Simonetto alle maschie riprese).

Mussolini col cinema naturalmente ci prende gusto, è il primo leader non americano a parlare alla “Man of the Hour”, rubrica della Fox, nel 1927, in un inglese immaginario, altro che premier attuali in confronto assai fluenti. Poi la Guerra d’Etiopia, con le bobine lanciate dall’aria agli operatori Luce tra le sabbie desertiche – gli stessi operatori che poi si rifiuteranno, nel 1943, dopo l’Otto settembre, di trasferirsi a Venezia per esser più comodi con Salò, la bad company del Fascismo.

Con la Repubblica invece il Luce perde i monopoli del cinegiornale, intanto si sono affacciati concorrenti più aggressivi, è arrivata la “Incom – Industria Corti Metraggi”, che nel 1938 si è già distinta per la copertura della Guerra di Spagna con servizi più moderni e meno paludati rispetto al Luce. È la Cnn, è come quando arriva Mentana contro il Tg1.  La Incom si inventa uno stile espressionista, anche con cartoni animati di regime. Uno dei più famosi è “Il Dr. Churkill“, opera di Luigi Pensuti, “il Disney di Mussolini”, forse pioniere del cinema d’animazione italiano, già autore di cartoni tratti da poesie di Trilussa e che qui, tra dottor Jekyll e Winston Churchill, anima un essere “mezzo umano e mezzo mostro”, che vive in un “tetro maniero” che è poi la Banca d’Inghilterra, a impersonare il complotto pluto-giudo eccetera, che di notte controlla l’economia mondiale sorvegliando come Zio Paperone un deposito qui di “ventruti forzieri” e di giorno si finge democratico.

La Incom, forse a sua insaputa fucina di talenti: il redattore unico per tanti anni è stato Giacomo Debenedetti, che si occupava soprattutto del brand più famoso del gruppo, la Settimana Incom, dieci minuti di rotocalco prima dei film al cinema, con voce fuori campo – nasale e autorevole e inconfondibile – di Guido Notari. Intanto arriva l’Italia del boom, ed ecco sempre Notari, già direttore di una Rinascente, e capo-annunciatore della antenata della Rai, l’Eiar, fine dicitore nel 1965 di un servizio sessista sulle automobiliste donne, che nel 1960 sono arrivate «alla bella cifra di un milione e duecentomila, una ogni cinque »; e poi  le campagne per il referendum sul divorzio, con i manifesti in bianco e nero «cerco una moglie che creda nella famiglia, non nell’aborto», e sotto, «a cura della Dc»; e sopra, invece, Emma Bonino giovane con le mani a fare il famoso gesto triangolare. Però i tempi gloriosi del Luce rimangono quelli del Duce, col faccione declinato in tutte le sue facce, e i tentativi di creare l’uomo nuovo italico, sportivo e guerresco, e “credere obbedire combattere”. E però usciti da questo Vittoriano, ecco esemplari di razze sabine e prenestine vestiti da centurioni con elmi di plastica, che fanno selfies a caro prezzo con turisti entusiasti, e tra un “a Cleopatra, viè qua, e thank you”, si capisce subito che era proprio impresa impossibile.

 

Nelle immagini dell’Istituto Luce, Mussolini a Littoria alle prese con la trebbiatura del grano; Mussolini (maglietta bianca e fez) e Starace (all-white con stivali) nell’Agro Pontino. Nel video, Mussolini tenta di parlare inglese.