Attualità

Te la ricordi la blogosfera?

Fino a pochi anni fa il dibattito sui nuovi media passava per un gruppo allargato di amici. Cronache e iconografia del tempo dei pionieri dei blog.

di Davide Piacenza

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È una bella giornata di metà giugno e fa caldo. Non troppo, per la verità, perché quest’anno abbiamo un meteo particolarmente instabile, che alterna il caldo afoso a un freddo autunnale. Si stanno giocando i Mondiali di calcio, l’evento che aspettavamo tutti da mesi, e l’Italia ha esordito con una vittoria piuttosto convincente. Accendo il mio computer – è abbastanza grande, e fa una specie di ronzio continuo e ovattato – e, tra le altre cose, leggo un post su mantellini.it. È breve, come la maggior parte degli articoli che Massimo Mantellini, il titolare dello spazio, scrive ogni giorno. Dice: «E’ pronto il mio articolo sui weblogs. Su Punto Informatico i prossimi giorni». Dimenticavo: è l’inizio dell’estate del 2002, e i «weblogs», compreso quello su cui scrive Mantellini, diventeranno presto «i blog», un fenomeno che verrà discusso, celebrato, osteggiato e sezionato negli anni a venire, per poi sparire – perlomeno in una certa sua veste – dall’oggi al domani, senza quasi lasciare traccia di sé. Come il mio vecchio computer rumoroso e quegli stessi pomeriggi di giugno.

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«La blogosfera»

L’epopea dei blog in Italia passa attraverso un termine, anch’esso scomparso o comunque di fatto in disuso da qualche anno: «blogosfera». La blogosfera, mi aiuta l’Enciclopedia Treccani, è «l’ambiente dei blog, percepito e praticato come uno spazio condiviso da utenti che, attraverso mezzi espressivi simili, si scambiano notizie, le approfondiscono in maniera collaborativa e discutono tra loro». Una descrizione precisa e asettica, che però non esaurisce affatto ciò che è successo sulla rete italiana all’incirca dal 2002 al 2007-2008, un periodo lontano pochi anni a cui è già lecito guardare attraverso la lente della storiografia. La versione italiana di Wikipedia alla voce “Blog” accenna en passant a questa età d’oro di quelli che divennero presto noti come blogger:

Tra il 2002 e il 2007 i blog godono di un periodo di grande fortuna comunicativa, addirittura di sopravvalutazione perché ritenuti fortemente rivoluzionari dal punto di vista della comunicazione e dei rapporti sociali: Giuseppe Granieri addirittura parla di Generation blog, intitolando così un suo libro.

«Sopravvalutazione» o meno, in quegli anni si generò un ecosistema di nuovi opinionisti, giornalisti, esperti d’informatica, scrittori e semplici curiosi autodichiaratosi all’avanguardia, un centro di riflessione permanente sul futuro dei mezzi di comunicazione e dell’espressione digitale (“virtuale”, non a caso, era il termine più onnipresente e inflazionato di quegli anni). I nomi dei suoi protagonisti, per noi – il me ragazzino dei primi anni Duemila e gli altri lettori muniti di linea 56k – che frequentavamo «la blogosfera» suonano ancora come quelli di eroici pionieri d’altri tempi: di Giuseppe Granieri, al tempo spesso GG, dice un articolo del 2004: «è l’incontro migliore che possa fare il navigante inesperto, sperduto lungo le rotte sempre nuove della Rete. Perché, se in Italia si vuole saperne di più sui Weblog, è a lui che bisogna chiedere». La retorica di Internet come landa inesplorata da scoprire fu una delle cifre fondamentali del fenomeno-blog dei primordi. In testa alla carovana degli avventurieri c’erano anche il già citato Mantellini, Andrea Beggi, Enrico Sola (allora soprattutto Suzukimaruti), Luca Sofri, Antonio Sofi, Leonardo Tondelli, Luca Conti, Mafe de Baggis, Gianluca Neri e autori che scrivevano sotto pseudonimi come Squonk, Livefast, Personalità Confusa. Tutte queste voci, che magari a qualcuno non diranno nulla, per buona parte degli anni Duemila hanno filtrato, amplificato e veicolato il dibattito su Internet e l’innovazione. Non è un’esagerazione o un’iperbole: c’erano i blog. Si parlava dei blog. E lo si faceva sui blog.

La retorica di Internet come landa inesplorata da scoprire fu una delle cifre fondamentali del fenomeno-blog dei primordi

L’epifenomeno della nascita e la consacrazione delle «blogstar» (così com’erano state ribattezzate) dice molto di quella che era diventata in breve tempo «la blogosfera». La sua appartenenza aveva un carattere per certi versi esclusivo, reso tale da un meccanismo per cui a parlare dei blog stessi, dei destini dei media e di Internet erano spesso più o meno i soliti: i primi blogger, quelli con un seguito più numeroso. Gli stessi che poi partecipavano a dibattiti e conferenze sul tema, andavano ai Barcamp – i mitici ritrovi per blogger, con un’iconografia sui generis – e incanalavano le discussioni sulla rete. Andrea Beggi, informatico genovese, era diventato un tale simbolo di questa new wave di pionerismo internettiano da essere considerato alla stregua di una celebrità: esiste tuttora “I facts di Andrea Beggi”, una raccolta di ironie simili a quelle che fino a qualche anno fa, con soggetto Chuck Norris, hanno monopolizzato Internet (ci potete leggere cose come: «Andrea Beggi ha dimostrato che Paolo Attivissimo è una bufala»). Come tutte le epiche che si rispettino, oltre agli eroici Beggi, Mantellini & co. col tempo sono apparsi anche gli antieroi: Dr. Pruno, su tutti, dedicò lunghi anni a un’opera metodica, spietata e informata di trolling delle blog-celebrità. Esiste ancora il suo Tumblr votato a efferate prese in giro dei protagonisti di allora, puntualmente dipinti come tuttologi abituati a pontificare su qualsiasi cosa, marchettari carenti in dignità e, più in generale, inetti – Dr. Pruno, in altre parole, merita una citazione come primo grande hater della blogosfera.

Ho scritto ad Andrea Beggi per chiedergli come vanno le cose oggi, in cui la sbornia dei blog (beh, di quei blog) è passata. «La mia vita più o meno è la stessa: il blog non mi ha fatto cambiare lavoro», dice, «però mi sono rimasti tanti amici, il che è una cosa meravigliosa che da sola è valsa la pena per tutto». Anche Enrico Sola/Suzukimaruti, che mi ha fornito un utile consulto per la scrittura di questa madeleine di vita digitale, mi rivela: «la quasi totalità dei miei amici è dovuta al blog, così come il lavoro e la mia fidanzata». Non si rischiava il ben noto effetto circoletto? Beggi sostiene di no: «la questione dell’autoreferenzialità l’ho sempre trovata un po’ pretestuosa. Tutti i gruppi con un interesse comune sono così: parlano tutti delle loro cose e delle loro passioni, usano il loro gergo e hanno le loro gerarchie e regole». Dello stesso avviso è Achille Corea, calabrese che gestisce Akille.net dal 2003: «la polemica sull’autoreferenzialità dei blogger la trovavo un pretesto anche all’epoca. Quello dei blog era un fenomeno dai numeri limitati: qualche migliaio di blogger attivi in tutto il Paese. Quando veniva raccontato spesso si preferiva ignorare che una grossa parte di questi siti erano diari senza pretese, tenuti da persone che volevano raccontare i fatti propri».

Certo: però alcuni di loro stavano cambiando il mondo (o, perlomeno, quello digitale in Italia). Leonardo Tondelli, che oggi continua a bloggare (un verbo quasi estinto, se ci fate caso) dalle colonne del Post, fa autocritica: «io i “post-sui-blog-che-parlano-del-ruolo-dei-blog” non li rileggo mai, mi vergogno solo a pensare che ne ho scritti. Mi ricordo che i giornalisti si lamentavano del fatto che fossimo autoreferenziali, e che a volte replicavamo: magari fossimo davvero autoreferenziali, magari parlassimo davvero di noi, delle nostre esperienze. Invece per lo più scrivevamo di quanto fosse importante scrivere le cose che stavamo scrivendo». Ho scritto via email a tutti loro, i blogger d’antan, e l’ho fatto volutamente, in ossequio alla loro dimensione prediletta, alle migliaia di post che hanno costruito la loro identità. «Era una seduta di autocoscienza inevitabile», mi ha anche risposto Leonardo. «Succede così in tutti i movimenti artistici – non voglio dire che fossimo un movimento artistico, ma è l’unica cosa che so funzionare così: all’inizio si parla di quello che si vuole fare, e a volte non si prosegue oltre. Lo facevo anch’io, per lo stesso motivo per cui adesso scrivo molto di Beppe Grillo, ovvero: vedo che l’argomento suscita molto interesse, vedo che altri ci scrivono su, penso di essere in grado di scriverne meglio, ecc. Tra qualche anno mi guarderò indietro e mi chiederò: ma perché ho scritto così tanto su Beppe Grillo? Era davvero così importante per me? No, per me è importante scrivere».

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Facebook killed the blogstars

Nell’Eden dei primi blog trovavano spazio anche fatti e storie piuttosto peculiari, se non direttamente irripetibili. Diversi episodi mi tornano alla mente alla rinfusa, ammassati dal pressapochismo dei ricordi: Filippo Facci, firma di punta di Libero, per un anno e mezzo – dall’estate del 2004 fino alla fine del 2006 – finse di essere una disinibita diciannovenne californiana, Lexi Amberson, dotata di un blog personale su cui scriveva in un italiano molto colorito, mostrando una predilezione per i temi legati alla politica e all’attualità e una retorica palesemente votata a scandalizzare i benpensanti. Nel 2007 Marco Camisani Calzolari, imprenditore e blogger noto per aver creato la community online di Silvio Berlusconi, fondò TuoVideo.it, che negli intenti doveva essere «il clone italiano di Youtube». Motivò il progetto con la crescente domanda di «contenuti facili da usare/apprezzare/riconoscere dagli italiani che conoscono meno l’inglese». Non andò benissimo. E ancora: in anni di conversazioni, interazioni e commenti reciproci, «la blogosfera» rimase sempre persuasa del fatto che Personalità Confusa fosse una ragazza di nome Alessia. Finché, alla fine, un giorno non fu lui a rivelare di essere un uomo.

Tondelli – che per me rimarrà, ovviamente, sempre Leonardo, nel senso del nome del suo blog – mi spiega: «fino al 2002 la blogosfera era una specie di circolo di radioamatori: zero conflittualità, zero speranza di farne un mestiere. Nel 2003 era già diverso, il bacino aveva cominciato ad allargarsi: cominciavano a esserci giornalisti, gente (giustamente) interessata a capire se ci fosse un sistema per farci dei soldi. Alcuni ci sono pure riusciti. a quel punto i primi arrivati godevano di un vantaggio particolare: se qualcuno faceva una classifica, mi ci infilava; un sacco di gente cominciava a linkarmi e a leggermi perché ero nella classifica. C’era stato come un accumulo originario di interesse: il motivo per cui ancora oggi qualcuno si ricorda di me».

«Fino al 2002 la blogosfera era una specie di circolo di radioamatori: zero conflittualità» (Leonardo Tondelli).

Achille Corea ha idee precise riguardo alla nascita dell’equazione tra «la blogosfera» e i suoi rappresentanti più noti: «Nei racconti sui giornali ci si concentrava su quei pochi blogger dotati di una certa visibilità: giornalisti, editorialisti, polemisti, opinion maker veri o presunti. E così si è formata la convinzione che i blogger fossero effettivamente quello: un’avanguardia digitale che avrebbe sostituito i giornalisti. Se il disegno fosse stato quello potremmo serenamente concordare sul suo fallimento, ma secondo me non lo era. (Anche se bisogna ammettere che l’idea di sostituire i giornali con la gente comune della rete ha avuto successivamente un certo seguito, persino in cabina elettorale)».

In realtà, a cementare la comunità originaria dei santoni del blog furono anche alcuni eventi specifici. Nel 2003, ad esempio, Guia Soncini scrisse sul Foglio un pezzo dove prendeva di mira «i blogger che, nascosti dietro nomignoli da Giovane Marmotta, vomitano veleno su chiunque».  A quell’articolo i vari proto-blogger risposero facendo quadrato, sostiene Enrico Sola. Sempre nel 2003, la galassia in crescita esponenziale del compianto network Splinder finì sugli scaffali delle librerie con Diario di una blogger, di Francesca Mazzucato. E poi ci fu l’ondata primigenia di incontri ed eventi ad hoc, tutti con nomi che testimoniano l’ossessione per il nuovo strumento: il BlogRodeo (una specie di gara letteraria a gruppi) dal 2004, le BlogFest di Gianluca Neri/Macchianera e, soprattutto, i Barcamp (un format americano di conferenza aperta portato in Italia nel settembre 2006, negli uffici milanesi dell’editore Apogeo, da un giovane programmatore alessandrino: Riccardo Cambiassi, al secolo Bru, di certo meno noto per essere anche un mio ex vicino di casa storico). In tutti questi luoghi prevalevano oggetti, simboli e codici poi rimasti legati a quel mondo: le moo card, biglietti da visita su misura diventati uno status symbol; il caffè espresso tra un panel e l’altro, con annessa occasione per socializzare; l’inevitabile scambio di link alla fine dell’incontro, per sigillare sul blogroll il neonato rapporto. Il mondo dei blog in Italia, essenzialmente, per un certo periodo rimase assimilabile, per conformazione e dinamiche interne, a un gruppo di amici allargato.

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Qui una volta era tutto blogroll

In una sorta di rivisitazione del mito del buon selvaggio in chiave web 2.0, c’è chi pensa che i blogger degli inizi fossero antropologicamente diversi. Giuseppe Granieri parlava di «generosità del blogger», quella che portava i primi frequentatori dell’ambiente a scrivere recensioni di dischi e libri, provare nuovi servizi e gadget senza scopo di lucro (in realtà, secondo Sola «quella generosità era animata dalla gratificazione del proselitismo»).

Che fossero più o meno altruisti o filantropi, oggi molti di quei blogger sono finiti, e con loro lo spazio che si erano ritagliati in rete, inghiottito dall’istantaneità più verticale dei nuovi social network. In pochi hanno voglia di scrivere con la frequenza dei bei tempi, e il pubblico, ancorché magari in parte lo stesso, oggi ha abitudini differenti. Diversi mi hanno riferito che molti proto-blogger negli ultimi anni si sono rifugiati su Friendfeed, forse in una sorta di sdegnosa splendid isolation verso le nuove piattaforme, passando di fatto da carovana di pionieri a riserva indiana.

Achille Corea pone un’obiezione: «non so quanto possiamo dire che i protagonisti della blogosfera siano stati dimenticati». Selvaggia Lucarelli, splinderiana della prima ora, deve parte della sua fama all’essere stata una delle prime blogger. Diego Bianchi, in arte Zoro, anni prima di Gazebo era un videoblogger romano. Luca Sofri è diventato direttore del Post, non a caso «il primo superblog italiano». Matteo Bordone, di Freddy Nietzsche, è un conduttore televisivo e radiofonico. Anni dopo gli screzi personali elevati a dibattito pubblico, i discorsi sul futuro «virtuale», le parodie, gli scambi di link, le accuse reciproche e i tramezzini (a un certo punto elevati a simbolo della corruzione dei blogger, in quanto offerti agli eventi sponsorizzati dalle aziende) alcuni di loro sono ancora lì. Internet è cambiato, però.

Suzukimaruti scrive così: «Potrei fare il nostalgico e dire che si stava meglio allora, ma è una balla. C’era meno rumore di fondo, ma c’erano anche strumenti meno ricchi (nel senso digitale del termine) di adesso. Meno varietà. Ora abbiamo luoghi e ambiti diversi per funzioni diverse. È un’evoluzione vera e propria, che va – antropologicamente – verso la complessità». Certo, il rischio è che vadano perse le storie grandi e piccole impigliatisi nella rete degli anni d’oro dei blog. E sarebbe un peccato che per me equivarrebbe un po’ a dimenticare quelle giornate di giugno, arbitro Moreno a parte. «Ricordo un utente», mi ha scritto, tra le altre cose, sempre Sola, «tal edTV, che raggiungeva picchi di mostruosità verbali già nel 2004, e magari sotto post in cui me la prendevo con la bruttezza di Star Wars. Visto dal vivo, poi, era un assistente universitario del nordest. Pacatissimo. “Su Internet nessuno sa che sei un cane“».