Attualità

Il “diario immenso” di Ettore Sottsass

Cento anni dalla nascita di un maestro del design, che è anche icona culturale assoluta: la postfazione alla raccolta di testi inediti pubblicata da Adelphi.

di Matteo Codignola

Cento anni fa, il 14 settembre 1917, nasceva Ettore Sottsass, uno dei designer più influenti del Novecento. Sottsass non ha scritto soltanto la storia del design italiano, ma è stato anche un protagonista culturale a tutto tondo. Il centenario viene celebrato da Phaidon con una riedizione della sua monografia (di cui pubblichiamo in questo articolo alcune immagini), dalla Triennale di Milano con una mostra (dal 15 settembre), e da Adelphi con una raccolta di scritti in gran parte inediti (Per qualcuno può essere lo spazio)  di cui pubblichiamo qui di seguito la postfazione scritta da Matteo Codignola che ha curato il volume.

Il libro che tenete in mano induce allucinazioni gravi, anche se non serie – almeno, le ha indotte a me, e a partire da pagina uno. All’inizio di questo lavoro, il primo testo che ho letto è quello che adesso apre il volume. Comincia con un breve elenco di colori, e subito dopo ci trasporta – parrebbe – nello scompartimento di un vagone Union Pacific che attraversa le grandi pianure americane, mentre il suo solitario passeggero, con un quaderno sulle ginocchia, prende appunti su arredi e tappezzerie: di cui sembra possedere una conoscenza enciclopedica, o ambire a costruirsene una. L’allucinazione è stata immediata e quasi automatica, anche perché scatenata, oltre che dal testo in sé, da una questione di vecchie copertine: su quella della sua autobiografia provvisoria, Scritto di notte, Sottsass compare infatti con un cappellaccio e un paio di baffi spioventi che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi addetto al casting di un western americano dell’età d’oro. Ma per quella stessa copertina era stata scartata, chissà perché, anche una splendida foto di un Ettore molto più giovane, decisamente elegante e languidamente allungato nello scompartimento di un treno. Durante il famoso viaggio americano, avevo subito pensato, sovrapponendo le due immagini a quello che leggevo. Proseguendo nella lettura, tuttavia, le descrizioni degli interni si ramificavano e si precisavano al punto che diventava inevitabile chiedersi su quanti treni mai Sottsass fosse salito, in quel viaggio interminabile e apparentemente monomaniacale. A un certo punto, più che altro per controllare quanto tempo Ettore avesse dedicato a una ricerca di cui non riuscivo a immaginare il movente, ho dato un’occhiata in fondo al pezzo, dove compariva la data cui le pagine risalgono – il 1940. Un momento. Nel 1940 Sottsass aveva ventitré anni, si era appena laureato in architettura, e, come lui stesso ripete ogni volta rievocando quel periodo, non aveva un soldo. Inoltre, prima della guerra i neolaureati italiani non facevano viaggi premio, o di formazione, negli Stati Uniti. Soprattutto nel 1940, quando la traversata dell’Atlantico cominciava a diventare un tantino azzardata, a meno di non imbarcarsi su un cacciatorpediniere britannico.

Ettore Sottsass: 2010 Milan International Furniture Fair

E allora? Cos’erano, quelle pagine? Come, perché, o per chi erano state scritte? Sono domande che ritornano spesso leggendo i testi, diversissimi fra loro, cui Sottsass ha lavorato per tutta la vita, e costituiscono uno dei motivi più solidi per leggerli. In altre parole, sono domande incoraggianti, perché segnalano l’impossibilità di una lettura facilitata da scorciatoie quali i generi, le categorie, le etichette: e per definizione possono, anzi devono, rimanere senza risposta. Ma nel caso specifico, dovendo scegliere quali scritti includere in questa prima raccolta e quali no, qualche risposta mi serviva. Nella sua bellezza ormai quasi pittorica – le parole cancellate con un frego, i ripensamenti, le integrazioni – il pezzo sui treni che mi era stato consegnato non ne forniva alcuna, quindi ho chiesto un paio di chiarimenti alla persona che a Sottsass è stata più vicina, Barbara Radice. Volevo sapere come avesse fatto Ettore a arrivare in America: e perché, di quel vasto continente, gli interessassero, all’epoca, essenzialmente i treni. I loro interni, per essere più precisi.

Grazie al cielo ci siamo parlati al telefono, e non su Skype: la faccia di Barbara a sentirsi chiedere di quell’avventura americana l’ho immaginata lo stesso, ma almeno non l’ho vista. Macché America, mi ha risposto dopo una pausa vagamente interdetta: «Non c’era una lira, stava scoppiando la guerra, cosa vuoi che partisse. Sono cose prese da riviste, credo. Ettore comprava riviste, tutte quelle che poteva, o le raccoglieva dove le trovava. Le leggeva, ritagliava quello che gli interessava e lo incollava su un quaderno. Gli articoli, ma soprattutto le fotografie. Lo ha sempre fatto, anche dopo. Quanto alla foto che hai visto, certo che è di quegli anni. Ma Ettore non era in America, era militare in Montenegro, e credo tornasse a casa in licenza».

Di ritagliare e incollare avrebbe smesso, materialmente, ma sul piano mentale il gesto gli sarebbe rimasto attaccato«Ovvio, figurarsi» ho detto io, come se in fondo mi stesse confermando qualcosa che sapevo già. Un po’ volevo sembrare meno cretino (finendo per sembrarlo di più), un po’, sotto sotto, era vero: qualcosina mi era parso di intuire. Non sulle foto, naturalmente: lì avevo solo offerto materiale con cui un tempo gli psicologi della percezione sarebbero andati a nozze. No, quella che non mi stupiva del tutto, svanita l’allucinazione, era la faccenda delle foto ritagliate. Leggendo Sottsass abbastanza a lungo – difficile del resto assumerlo in dosi omeopatiche, ha scritto migliaia e migliaia di pagine –, si finisce per decidere che quel suo nomadismo intellettuale, fisico, e anche stilistico (Ettore ha letto di tutto, viaggiato ovunque e, a concentrarsi anche solo sulla scrittura, l’ha usata quasi in ogni variante disponibile), era la forma esterna, solo apparentemente compulsiva, di una ricerca tranquilla, lenta, persino metodica, e interamente costruita intorno alle immagini. Ritagliarle e incollarle poteva sembrare una mania innocente, ma data la sua persistenza considerarla tale sarebbe come pensare che Joseph Cornell raccogliesse scarti di pellicola nei bidoni della spazzatura per alimentare una sua collezione privata. Non è così. Ettore le immagini le usava, tutti i giorni, e ricostruendo quegli scompartimenti immaginari stava sperimentando un metodo di lavoro che negli anni avrebbe continuato a perfezionare. Di ritagliare e incollare avrebbe smesso, materialmente, ma sul piano mentale il gesto gli sarebbe rimasto attaccato, e quanto via via scriveva avrebbe mantenuto sempre la forma di un album, dove nel tempo si depositano immagini comuni che anche solo dalla loro impaginazione prendono un aspetto, e un senso, completamente diversi da quelli che eravamo abituati ad attribuirgli – o a proiettare su di loro.

È un gioco semplice, in fondo: ma giocato davvero, rischia di portare molto lontano. A poco a poco, quello di Sottsass si rivela essere un arcipelago sterminato e misterioso, dove si ha la sensazione, non sempre piacevole, di navigare a vista. Dopo un po’ si comincia a fantasticare una mappa, ma quasi subito ci si rende conto che al massimo si arriverà a disegnare un portolano – una di quelle carte molto colorate certamente utili per orientarsi, ma dove i vuoti contano quanto i pieni, e ai margini delle terre conosciute si affollano città immaginate e creature favolose, appena intraviste da qualche viaggiatore solitario: più oltre ancora, i lembi di continenti perduti.

A proposito di questo – di continenti perduti. Dalle carte di Sottsass è emersa una serie di testi di cui nulla finora si sapeva, e che era difficile collocare persino in una mappa predisposta per accogliere l’inusuale. I racconti di Ettore non assomigliano a niente di conosciuto, ma al tempo stesso quelle stranissime storie di militari sbandati, barboni, artisti ai margini – e periferie vuote, stanze nude, notti e donne dei Balcani – sembrano qualcosa di più, molto di più, di divertimenti o divagazioni occasionali. Per quanto tempo Ettore avrebbe scritto finzioni? E come mai, da un certo punto in avanti, aveva abbandonato quella strada? Non erano domande futili, lavorando a un libro come questo. E, di nuovo, l’unica in grado di rispondere era Barbara.

«Guarda, lui ha voluto sempre e solo fare l’architetto. Si è sempre sentito un architetto, e nient’altro. Almeno da quando ha deciso che non sarebbe mai potuto diventare un pittore. O un archeoantropologo. Faceva liste e liste di ere geologiche, lunghe così».

I racconti di Ettore non assomigliano a niente di conosciuto, ma al tempo stesso sembrano qualcosa di più, molto di più, di divertimenti o divagazioni occasionaliForse non era il momento ideale, per dare credibilità a quell’affermazione abbastanza perentoria – nelle ultime settimane erano in preparazione due mostre su Sottsass, una di vetri a Venezia e una di ceramiche a Milano. Non era neanche il setting ideale, peraltro. L’Archivio Sottsass è un grande ambiente quasi vuoto, a eccezione di un mobile celeste a metà fra una credenza contadina e una scrivania modernista – due descrizioni che avrebbero probabilmente molto irritato, per ragioni diverse, il suo autore: il resto, sono grandi cassettiere metalliche. Continuando a chiacchierare, Barbara apriva e chiudeva proprio uno dei cassetti a scomparsa. Era alto una decina di centimetri, lungo un paio di metri, e conteneva stampe fotografiche di grande formato. La prima, un altare circondato da una recinzione di filo di ferro in mezzo a un deserto, era in bianco e nero, ma il nudo e la cerimonia religiosa indiana più sotto erano a colori; seguivano case, ritratti, oggetti, paesaggi, in ordine e taglio sparsi: l’ordine – e il taglio – di Ettore. Il suo ultimo lavoro è stato un progetto fotografico, There is a Planet, e quegli scatti avrebbero tranquillamente potuto essere il materiale da cui era partito. Ma tutte le foto scattate da Ettore negli anni, in realtà, avrebbero potuto esserlo: ne guardi due, tre, sette, anche prese in luoghi e tempi lontanissimi, e quasi subito un ordine, insospettato e assolutamente personale, emerge.

Ettore Sottsass: 2010 Milan International Furniture Fair

Il mondo di Sottsass, più ancora che un arcipelago, sembrava un universo in costante espansione, che si aveva la sensazione di guardare con un cannocchiale da turistaPoi, a poco a poco, emerge qualcos’altro, e cioè una specie di irritazione. Dovuta a cosa? Semplice, al fatto che chi si occupa a qualsiasi titolo di lui a un certo punto si rende conto di star subendo una trasformazione incontrollabile, proprio come quei disgraziati che al cinema si sentono improvvisamente tirare la camicia, e per quanta resistenza oppongano in un attimo diventano un lupo, se non una mosca. E infatti. «Quante sono?» ho finito per chiederle con un’aria non molto più intelligente dei turisti che si domandano quanti anni ci saranno voluti a costruire il Taj Mahal, o degli ospiti che vogliono sapere se il padrone di casa ha davvero letto tutti i libri che ha negli scaffali. «Quelle stampate circa 2000. Le altre non le ho contate con precisione, ma credo circa 150.000». Centocinquantamila. Alla dismisura uno con Sottsass si abitua (700 disegni è il titolo di un volume che raccoglie una minuscola parte dei suoi schizzi e bozzetti), ma ho controllato, centocinquantamila scatti sono meno del portfolio che un fotografo professionista costruisce nella sua carriera – però non molto meno. Ora, che Ettore fotografasse con una dedizione e una continuità fra il giapponese e il sudcoreano lo sapevo, ma tutto sommato quel comodissimo stereotipo era un’approssimazione per difetto. Barbara mi ha raccontato di una spaventevole ora di volo, quando il Cessna su cui viaggiavano nei cieli di Papua era finito in una terrificante turbolenza. Lei era arrivata a un passo dal panico, e Ettore, con la sua aria più serafica, era riuscito in qualche modo a calmarla. Poi le aveva suggerito di spostarsi su un sedile interno, dove l’enorme tromba d’aria nera che si avvicinava sempre di più, e che neppure il pilota pareva sottovalutare, l’avrebbe impressionata meno. Su quello vicino all’oblò si era sistemato lui, e immediatamente aveva incollato l’obiettivo al vetro, scattando a ripetizione. Barbara gli aveva fatto notare che forse non era il momento di pensare alle fotografie. «Oh, vedrai che quando le riguarderai a casa, queste belle foto della tromba d’aria, sarai contentissima» aveva risposto Ettore con un sorriso che non ho mai visto, ma che sono certo non fosse resistibile.

Più che chiarirmi le idee, la chiacchierata rischiava di confondermele. Fino a quel momento l’impostazione del lavoro mi era parsa accettabile, ma visto da vicino il mondo di Sottsass, più ancora che un arcipelago, sembrava un universo in costante espansione, che si aveva la sensazione di guardare con un cannocchiale da turista – a monetine, e a tempo. Mi serviva uno strumento più accurato, che però non sapevo dove trovare.

Sotsass
Sottsass, a cura di Philippe Thomé, Phaidon; Per qualcuno può essere lo spazio, Ettore Sottsass, Adelphi

Intanto avevamo cambiato stanza. Su un grande tavolo Barbara aveva appoggiato un certo numero di agende, taccuini e quaderni che voleva farmi vedere. All’inizio mi sono lasciato distrarre dall’opera che copriva quasi per intero la parete alle sue spalle, un planisfero immaginario dove Francesco Clemente aveva tracciato un labirinto di isole, golfi e promontori in cui lo sguardo si perdeva. Ho continuato a fissarlo per un po’, senza capire che, come sempre in questi – e in altri – casi, la soluzione era dove uno meno tende a cercarla: sotto gli occhi.

Ho aperto la prima agenda che avevo davanti. Era uno di quei monumenti di cartoleria in pelle nera, con le pagine bordate oro, che in un mondo ormai scomparso le banche decenti regalavano, verso fine anno, ai clienti che preferivano tenersi buoni. All’interno, però, Ettore aveva annotato pochissimi impegni, o appuntamenti: al contrario, le pagine erano coperte – graffiate – da un’impressionante quantità di disegni, schizzi, appunti: e di testi, apparentemente compiuti.

Ettore i taccuini li scriveva così, cioè con la sua vera grafia: poi, con calma, li copiava, e li copriva di disegni, trasformandoli nei quaderni che ci sono arrivatiAprendo a caso, uno dopo l’altro, i quaderni, si capiva benissimo che non erano quello per cui li si poteva scambiare – blocchi di appunti, cioè, più o meno elaborati. Nel loro insieme, costituivano il «diario immenso» che Sottsass sosteneva ciascuno dovrebbe scrivere – e che comunque lui ha scritto, tentando di scoprire davvero «com’è stata la vita di ogni polvere sotto tutte le necropoli del mondo». Ettore finge costantemente di no («Ma poi cosa posso mai capirne io, che non so nemmeno dove vanno le navi» si legge nell’agenda della banca), eppure quei quaderni – sono centinaia, ognuno progettato e lavorato nei minimi dettagli – vanno forse considerati la sua opera definitiva. In ogni caso, nel loro insieme formano una biblioteca impossibile di volumi unici, fatti a mano, quindi molto più ricchi e preziosi di una loro eventuale, e improponibile, versione a stampa.

Non è una congettura, o non del tutto. A un certo punto, Barbara ha tirato fuori un quaderno più malandato degli altri, riempito con un corsivo molto diverso dallo stampatello sottilissimo familiare a chiunque abbia visto una pagina manoscritta di Sottsass. Le ho chiesto cosa fosse, e mi ha raccontato che in una prima, lunga fase Ettore i taccuini li scriveva così, cioè con la sua vera grafia: poi, con calma, li copiava, e li copriva di disegni, trasformandoli nei quaderni che ci sono arrivati.

Ettore Sottsass: 2010 Milan International Furniture Fair

Molto probabilmente i quaderni neri – nell’epoca in cui internet rappresentava una fantasticheria futurista, erano la prima cosa che Sottsass si precipitava a comprare in ogni città con una cartoleria passabile, e per scegliere i più adatti poteva metterci ore – rimarranno per sempre nella veste attuale, anche perché pubblicarli così come sono sarebbe, per l’appunto, una follia. Ma almeno una volta – per fortuna – qualcuno da quella follia si è lasciato tentare.

Nel 1989, Alessi decide di stampare in cinquecento copie il facsimile di un quaderno nero di grande formato, che dieci anni prima Ettore, come in qualche caso faceva, aveva provvisto di un’etichetta e di un titolo: Esercizio formale. Al solito, difficile dire di cosa precisamente si tratti, oltre che di un magnifico oggetto. Per dare l’idea, in cinquanta pagine si alternano: disegni dal vero di templi indiani e rovine greche; il riassunto stenografico dell’incontro con fisica, spezzoni di film, effetti sonori horror; trascrizioni di manuali erotici cinesi; brani del trattato di De Chirico sulla pittura, e – ma allora è una fissazione – elenchi di colori; schizzi e progetti, soprattutto di mobili. È una sequenza che può anche sconcertare, ma non c’è un modo migliore e più rapido di capire come la mente di Sottsass lavorasse: anzi, di sorprenderla al lavoro.

Peccato che quello a cui stavamo lavorando non fosse il facsimile di un quaderno, ma qualcosa di molto diverso, un libro – il primo di tre – che raccontasse gli inizi della carriera di Sottsass. Eppure, quando si è trattato di scegliere fra le decine di manoscritti, articoli, interventi, conferenze, recensioni che Ettore pubblicava – oppure no – negli anni fra guerra e dopoguerra, è stato molto utile tenere costantemente un occhio, almeno interno, a quello che Sottsass scriveva e disegnava tutti i giorni: a come scriveva, e a come disegnava. E sono stati utili due sospetti, che l’autore, stavolta, avrebbe autorizzato. Il primo è che Ettore non facesse necessariamente sul serio quando parlava di Le Corbusier, o di arredamento, o di design – e che in parallelo non scherzasse del tutto quando scriveva la scaletta di un western all’americana, o cercava di riprodurre i sentimenti di un gatto nei confronti di un piatto di acciughe. Il secondo sospetto è che una volta avesse mentito un po’ troppo spudoratamente, a chi immaginava lo avrebbe letto, perché in realtà lo sapeva anche troppo bene, dove andavano le navi. E lo aveva sempre saputo.

@ Matteo Codignola
@ 2017 Adelphi Edizioni spa
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