Cultura | Dal numero

Uomini e volpi, quasi amici

Il confine tra mondo umano e natura selvaggia non è fisso e invariabile. Le volpi, sempre più vicine alle nostre città, sono uno degli esempi più simbolici di come le cose possano cambiare.

di Marco Granata

Andavo a caccia di fantasmi, le notti d’estate, lungo le strade che tagliano i boschi. Prendevo la macchina subito dopo cena, allungavo la mano oltre il finestrino e accendevo gli abbaglianti per esplorare lo spazio tra gli alberi. Ero iscritto alla triennale in Biologia solo da qualche mese, ma volevo dimostrare a me stesso di aver finalmente deciso a cosa avrei dedicato la mia vita: studiare i carnivori, da sempre l’immagine più pura, ai miei occhi, della natura selvaggia. Alla fine degli anni Novanta, mentre i lupi ritornavano sulle montagne dietro casa e gli orsi venivano reintrodotti sulle Alpi, i carnivori vivevano anche in camera mia, sotto forma di pupazzi, poster e coperte. Sfogliavo i miei primi libri illustrati leggendo storie di branchi e di cacce, e lentamente imparavo a riconoscere le diverse specie di carnivori. A volte immaginavo addirittura di vederli, quando mio nonno mi caricava a spalle e mi portava nel bosco ad ascoltare l’acqua che scendeva tra le rocce: ritornato a casa, raccontavo ai miei genitori che c’era un lupo in una radura o lungo un crinale, così che alla fine ci credevo pure io.

Quasi vent’anni dopo sentivo la stessa necessità di incontrare i carnivori, forse perché finalmente mi rendevo conto di non averli mai visti per davvero, ed ero deciso a cercarli là dove prima non avevo ancora guardato: non in camera mia, non nei libri, non nella mia immaginazione, ma nei boschi. Mi bastava allora uscire di casa e respirare l’odore di terra e resina, lo stesso delle passeggiate nei boschi sulle spalle di nonno, per illudermi che alla prossima svolta sarebbe comparso un lupo o un orso, e che tutto avrebbe avuto un senso. Il mio primo carnivoro avvistato però, senza troppe sorprese, è stata una volpe. Sedevo al tavolo da pic-nic in una piazzola di sosta quando è apparsa dall’altra parte della strada, dietro il guardrail. Rimaneva in attesa, respirando piano contro l’acciaio, e mi sembrava impossibile che la notte fosse popolata da qualcosa di così perfetto. Ho provato a chiamarla, non perché fossi così ingenuo da volerle offrire cibo o una carezza, ma per fermarla un istante, e sentirmi meno solo. Ho schioccato la lingua contro il palato, le ho fischiato come se fosse un cane, mi sono chinato sull’erba umida: speravo che la mia vocazione potesse trasformarsi in una luce, un odore o una vibrazione percepibile anche dai carnivori. La volpe invece si è voltata ed è scomparsa nel buio.

Prima di iscrivermi a Biologia, ero convinto che i lupi e gli orsi fossero tantissimi; delle volpi invece non sapevo praticamente nulla se non che vivevano dietro casa mia. Ci ho messo qualche anno per scoprire che in Italia gli orsi sono appena duecento e i lupi poco più di tremila, mentre le volpi sono così tante che non esistono stime a livello nazionale (in Inghilterra, per esempio, dove di lupi e orsi non c’è traccia, le volpi sono probabilmente intorno a trecentocinquantamila). Secondo gli esperti, questo successo è dovuto soprattutto alla straordinaria capacità della volpe di sfruttare ogni tipo di risorsa e ogni tipo di ambiente, anche molto antropizzato. Nonostante infatti il nostro primo incontro sia stato in un bosco, le volpi coesistono con gli esseri umani fin dai nostri primi insediamenti, e oggi sopravvivono senza troppi problemi anche nel verde delle metropoli. A Londra, per esempio, le volpi sono arrivate intorno agli anni Trenta, ma è solo negli ultimi decenni che la loro popolazione ha raggiunto numeri eccezionali: leggevo in un articolo pubblicato pochi mesi fa sul Guardian che oggi sono oltre diecimila le volpi londinesi, con una densità media intorno ai quindici individui per chilometro quadrato, circa dieci volte le densità naturali. Nelle città italiane non abbiamo ancora questi numeri, e infatti è solo dagli anni Ottanta che le volpi si sono spinte nel tessuto urbano, ma penso non sia da escludere che in alcune metropoli si possa arrivare, nei prossimi decenni, a una situazione comparabile a quella londinese.

Ho visto le mie prime volpi cittadine un paio d’anni dopo la volpe dietro il guardrail: due volpi spelacchiate che attraversavano le corsie deserte della tangenziale fino a rifugiarsi nel prato che scende verso i centri commerciali. Poco dopo avrei visto anche la mia prima tana di volpe, in un edificio abbandonato vicino al fiume: di fronte all’ingresso della tana, una voragine oscura nel pavimento, giacevano crani di nutrie e cumuli di rifiuti. Me le vedevo di fronte a me, quelle volpi, mentre la mamma insegnava ai piccoli come finire una preda, e mentre insieme provavano ad aprire un pacchetto di patatine. Rispetto ai boschi, le città sono una fonte quasi inesauribile di risorse alimentari – soprattutto i nostri rifiuti. Ma c’è di più: il clima è sensibilmente più caldo, la competizione con le altre specie è meno serrata, e non ci sono i cacciatori. Spesso poi le volpi sono costrette a trasferirsi in città perché tutt’intorno si stende un deserto biologico che riassume le grandi minacce alla biodiversità globale. Vivere in città però non è semplice: bisogna infatti imparare a tollerare un vicino scomodo,  l’essere umano. Spesso immaginiamo che si tratti solo di cambiamenti comportamentali, e conosciamo bene le volpi che imparano a stazionare nei parcheggi dei centri commerciali o vicino alle vecchie discariche. Ma negli ultimi anni alcuni ricercatori hanno scoperto che sono subentrate anche importanti trasformazioni anatomiche, e in tempi molto rapidi.

In Gran Bretagna, secondo uno studio pubblicato sui Proceedings of the Royal Society, le volpi di città hanno oggi un muso più corto e più tozzo delle volpi di bosco, dopo neanche un secolo di separazione tra le loro popolazioni. Un cranio lungo e snello è utile per stanare arvicole tra le rocce e le radici, ma non per forzare un contenitore di plastica e sgranocchiare il suo contenuto. In più, l’intero cranio si è rimpicciolito: mentre solitamente gli animali che vivono in città sviluppano cervelli più grandi, diventando più simili a noi, per la volpe è successo il contrario. Potrebbe essere una semplice conseguenza meccanica della nuova morfologia del muso, ma sono evidenti le somiglianze con i risultati del celebre studio che a partire dalla metà dello scorso secolo svelò importanti rivelazioni sul processo di domesticazione.

Dal 1959 a Novosibirsk, in Russia, il genetista Dmitri Beljaev e la sua allieva Ljudmila Trut, poi a capo del progetto, provarono a reinscenare la domesticazione del cane utilizzando come modello le volpi di un allevamento per pellicce. Ogni anno selezionavano solamente le volpi più docili e le facevano accoppiare tra di loro: nel giro di un paio di generazioni furono sorpresi da volpi che si comportavano come cani, e in pochi anni osservarono musi più corti e cervelli più piccoli, ma anche altri caratteri tipici della domesticazione, come orecchie cadenti, colorazioni anomale e code curve. È ipotizzabile allora che le volpi britanniche, e in generale le volpi urbane, stiano puntando sullo stesso carattere selezionato da Beljaev, la docilità, e si stiano addomesticando per vivere insieme a noi. Nel suo libro Come addomesticare una volpe (Adelphi, traduzione di Valentina Marconi), Ljudmila Trut racconta di aver sempre tenuto a mente una frase pronunciata dalla volpe del Piccolo principe di Saint Exupéry: «Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato». Allo stesso modo, noi dovremmo sentirci responsabili delle volpi che vivono tra di noi e imparare a riconoscerle per quello che sono: non teneri domestici, non fiere selvagge, ma animali selvatici. Non abbiamo problemi infatti a rapportarci con un animale domestico, fondamentalmente perché l’abbiamo plasmato a nostra immagine e somiglianza. A un cane puoi offrire cibo dalle tue mani; puoi farti una fotografia insieme a lui; puoi accarezzarlo senza paura; puoi, in un certo senso, farlo tuo. È per questo che scorrendo tra le migliaia di video di volpacchiotti su Instagram la prima domanda che ci facciamo è: «Davvero posso tenere una volpe in casa?».

Paradossalmente non abbiamo problemi neanche a rapportarci con il selvaggio, la natura che non può essere addomesticata. Il selvaggio è un assoluto, e come tale sappiamo incasellarlo nei nostri sistemi valoriali. Ci schieriamo subito a favore o contro l’abbattimento di un orso che uccide un essere umano, semplicemente perché non ci riguarda da vicino. Allo stesso modo, non ci interessano molto le volpi che cacciano roditori tra le pietraie. Abbiamo invece più problemi a rapportarci con il selvatico, e in generale con tutto quello che si colloca tra il domestico e il selvaggio. Non è infatti un qualcosa che ci appartiene, come il domestico, né tantomeno un ideale nella nostra testa, come il selvaggio: il selvatico nasce dalla relazione, e la relazione è per sua natura ambigua, perché comprende modi diversi di interpretare il mondo. Per questo è così difficile tracciare un confine tra noi e l’altro, soprattutto quando è molto vicino a noi, come le volpi spettrali che si aggirano per le nostre città.

Non possiamo offrire cibo a una volpe selvatica perché la rendiamo domestica: perderà l’interesse a procurarsi cibo da sola e si avvicinerà sempre di più agli esseri umani: morirà di fame o investita da un’automobile. Non possiamo accarezzare una volpe selvatica: si sentirà minacciata e potrebbe morderci, rendendo inevitabile la sua rimozione. Non possiamo farci una foto con una volpe selvatica perché questa, a differenza di un cane, non ci appartiene, anche se vive sotto casa nostra, e quel qualcosa che cerchiamo in lei, un qualcosa che vorremmo cristallizzare e metterci in tasca, è in realtà dentro di noi e non ce ne accorgiamo. Ci sentiamo soli: nei boschi, in montagna, nelle città. Anche se percorriamo le stesse strade e camminiamo gli stessi sentieri, percepiamo l’abisso che ci separa dagli animali selvatici: abbiamo dimenticato il loro nome, i loro cicli e il loro linguaggio.

Speriamo però che quell’abisso sia ancora colmabile, e che l’unico modo per sconfiggere la solitudine sia fare nostri i selvatici, ma nel momento in cui addomestichiamo un animale selvatico, esso cessa di essere tale e perde il suo valore, cioè la sua bellezza e la sua indipendenza da noi. Addomesticare una volpe, come pure lanciarle una pagnotta o accarezzarla dietro le orecchie, non ci farà sentire meno soli. Le volpi e gli altri selvatici, infatti, vivono ancora fra di noi; e ancora dipendiamo gli uni dagli altri, come quando per la prima volta un essere umano incontrò una volpe. La solitudine allora è dentro di noi, e forse l’unico modo per sconfiggerla è reimparare quello che abbiamo dimenticato: la nostra natura e quella delle altre specie; in altre parole, la nostra posizione su questo pianeta. Ci sentiremo meno soli solamente quando impareremo a osservarli da lontano, questi fantasmi selvatici, garantendogli il loro diritto a esistere vicino a noi, ma senza appartenerci.

Questo articolo è tratto da “New World Border – Il nostro posto nel mondo”, il numero di Rivista Studio in edicola. Se volete acquistare una copia oppure abbonarvi, potete farlo qui.