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Mods contro rockers: le guerre culturali prima dei social

Un approfondimento musicale sul tema del nostro festival, Versus, accompagnato da una playlist realizzata per noi da Radio Raheem.

25 Novembre 2021

Quest’anno Radio Raheem supporta Studio in Triennale con una serie di approfondimenti legati al tema del festival, Versus (qui il programma completo). Martedì 24 novembre Cristiano de Majo e Silvia Schirinzi hanno presentato il programma insieme a J. Cirillo (potete rivederli o riascoltarli qui), sabato 27 novembre l’appuntamento è alle 12 per esplorare con Cesare Alemanni il tema del festival nella musica, Versus (in the music). Oggi pubblichiamo un ulteriore approfondimento musicale sul tema delle guerre culturali: un articolo che racconta la famosa battaglia tra mods & rockers, accompagnato da una playlist realizzata per noi da Radio Raheem.

1 maggio 1964: un momento dello scontro tra mods e rockers a Margate, nel Kent (foto di Ronald Dumont/Express/Getty Images)

Riuscite a immaginare nell’era social, digitale, liquida – scegliete voi – una rissa con duecento persone che si inseguono per fare a pugni per questioni prettamente estetico-musicali? Altamente improbabile, in effetti, molto più semplice pensare a qualcuno seduto davanti alla tastiera mentre fomenta una discussione e poi spegne il computer per andare al lavoro o al bar a bere un caffè. Nei favolosi anni Sessanta e Settanta, invece, succedeva eccome.

Morrissey, in uno dei suoi pezzi più celebri, “Everyday is Like Sunday”, le chiama “coastal towns, that they forgot to close down”: sono le città costiere del Regno Unito, mete di agognati fine settimana di ferie o, inevitabilmente, sonnacchiose residenze di pensionati in cerca del “buon retiro”. Eppure, in posti come Brighton o Clacton, verso la metà degli anni Sessanta circa, il weekend era diventato sinonimo di battaglia tra due le due opposte sottoculture giovanili dominanti, mods e rockers, ossessionate da una rivalità prima di tutto estetico-musicale, poi attitudinale e, infine, sociale. La calata dei barbari dalla vicina Londra – gli uni a cavallo di Triumph e chopper, gli altri con le classiche vespe o le  lambrette elegantemente cromate – si concludeva immancabilmente con gigantesche risse sul lungomare in cui a scontrarsi, oltre che decine di ragazzi, erano soprattutto due opposti modi di rapportarsi col mondo.

I rockers, innamorati di un immaginario d’oltreoceano, erano figli del rock’n’roll americano, tutto brillantina, giacche di pelle, scarpe brothel creepers o da motociclista e jeans con risvolto. Il loro spirito reazionario e refrattario ai cambiamenti, era legato a un decennio che pareva preistoria e a un sound come quello di Elvis Presley, Bill Haley, Eddie Cochran e Gene Vincent, a metà dei Sessanta già irrimediabilmente superato da nuove mode. Era piuttosto normale, dunque, che i loro nemici naturali fossero i mods, ovvero i modernisti, la generazione successiva che rifiutava lo stile di vita dei propri padri, preferendone uno al passo coi tempi – moderno, appunto – e anfetaminico, in costante equilibrio tra rabbia ed eleganza. “Clean living under difficult circumstances” (Vita pulita in circostanze difficili) era il motto da seguire a ogni costo, in strada, a casa e sul lavoro, mezzo utile a mantenere i propri vizi: vestiti, scarpe, dischi, accessori per le lambrette o biglietti dei club in cui ci si rifugiava nei fine settimana a ballare rhythm’n’blues e northern soul sotto effetto di pasticche come le “purple hearts” o dei concerti di band della scena, Who e Small Faces in primis. I loro completi a quattro bottoni di taglio italiano, indossati come simbolo distintivo ben preciso, scomparivano sotto ai parka, giacconi verdi dell’esercito americano che riparavano dal freddo e dalla pioggia, pronti per essere sfoggiati in ogni evenienza.

Se i rockers incarnavano il boom economico del dopoguerra, perfettamente romanzato in telefilm di successo come “Happy Days”, il cui protagonista era il perfetto teddy boy Arthur “Fonzie” Fonzarelli, i mods erano pura espressione del proletariato britannico degli Swinging Sixities, quegli anni Sessanta favolosi quasi sempre solo in televisione e sui rotocalchi. La fine del decennio, con l’arrivo di inedite colonne sonore e cambiamenti politico-sociali sempre più estremi, relegò le due sottoculture in una nicchia più ristretta: da un lato, si manifestò il rapido sviluppo delle gang motociclistiche in stile Hell’s Angels, più legate a un immaginario hippy e psichedelico che a quello del rock’n’roll dei Fifties, dall’altro il tramonto parziale del movimento mod diede vita prima agli hard mods e poi alla nascita degli skinheads, figli della strada dall’attitudine combattiva. Bisognerà attendere una decina di anni prima di rivedere le città costiere britanniche invase da mods e rockers, sull’onda – è proprio il caso di dirlo – del successo di Quadrophenia, cult movie di Franc Roddam (l’inventore di Masterchef, niente di meno) ispirato all’omonima opera rock di Pete Townshend e dei suoi Who.

Il film racconta la storia di un giovane mod, Jimmy, interpretato da Phil Daniels, incompreso in famiglia, schiavo di un lavoro alienante, da cui si riscatta solamente nei fine settimana di violenza, pillole e musica. Il climax di Quadrophenia arriva durante la lunga sequenza girata a Brighton, con la fine di un breve flirt, la gigantesca rissa con gli odiati rockers (tra cui un amico d’infanzia al cui pestaggio Jimmy assiste con sensi di colpa, ma senza intervenire) e il down da anfetamine e adrenalina. La vita torna a essere la delusione di sempre, aggravata dalla consapevolezza di un cambiamento che non arriverà mai e dalla scoperta del vero lavoro di Ace/Asso (interpretato da Sting dei Police), il capo dei mods, semplice usciere in un albergo di lusso. Sarà la fine (simbolica) per Jimmy, e in qualche modo pure per il movimento mod, libero da luoghi comuni e retaggi del passato e proiettato verso un futuro finalmente modernista per davvero. E i vecchi rockers? Resistono, come i mods, con club dedicati, etichette discografiche specializzate, raduni, cloni di Elvis e nuovi adepti che rinverdiscono i fasti antichi. In barba alla profezia di Roger Daltrey e degli Who, che cantavano “Hope I die before I get old” in “My Generation”, sia gli uni che gli altri sono invecchiati egregiamente senza morire, influenzando Ramones, Sex Pistols, Stray Cats, Oasis, Blur, il brit pop e il punk rock.

Questa playlist di 22 brani alterna classici di entrambe la fazioni, cominciando con i rockers, per questioni cronologiche. Si spazia dai Cinquanta agli Ottanta, con pezzi che raccontano sia la storia originale che i revival successivi.

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