Cultura | Dal numero
Vendere all’estero un’amica geniale
Parla Michael Reynolds, editor a New York di Europa Editions.
Fotografie di Mario Tama realizzate durante il festival di San Gennaro a Little Italy, New York, nel settembre 2011. (Getty Images)
C’è anonimato e anonimato. Non tutti i casi di scrittori dall’identità segreta sono uguali né hanno pari dignità letteraria. C’è Nicolas Barreau, fittizio autore francese creato dai tedeschi per compiacere un pubblico che trova esotico perdersi per viuzze e librerie parigine: bestsellerista ovunque (in Italia lo pubblica Feltrinelli), è meglio leggerlo di nascosto come si fa con gli Harmony perché nessun intellettuale ha rilasciato dichiarazioni esaltate sulla sua opera, nessuno l’ha paragonato a Manzoni o a Pynchon, nessuno l’ha candidato a sua insaputa a un premio di qualità. E poi c’è Elena Ferrante.
Anche se per molti, sia fra gli scettici sia fra gli estimatori, la tetralogia che si conclude con Storia della bambina perduta, candidato al premio Strega 2015, è né più né meno che un corposo feuilleton, pare che girare per New York portandosela sottobraccio risulti molto cool. Giulio Passerini, ufficio stampa delle Edizioni e/o, l’autunno scorso twittava: «Betty Halbreich, la personal shopper più celebre di NY dichiara a D che sta leggendo Elena Ferrante, l’ultimo accessorio di moda a Manhattan» (e chissà se qualcuno dietro la copertina di una letterariamente riverita Ferrante aveva nascosto un Barreau). L’identità di Elena Ferrante è, da sempre, parte integrante della costruzione della sua aura. Michael Reynolds, editor-in-chief a New York di Europa Editions (fondata da Sandro Ferri e Sandra Ozzola della e/o), contattato via mail, ribadisce che i libri sono tutto ciò che conta e «l’assenza dell’autore obbliga i lettori, i critici e gli stessi editori a confrontarsi in modo più profondo con la sua opera».
Ferrante, chiunque essa sia, ha sostenuto identica linea fin da quando rispondeva ai lettori nel volume La frantumaglia (2003). Reynolds puntualizza che i libri della scrittrice napoletana non sono anonimi ma firmati, e anche questo è un cavallo di battaglia del caso ferrantiano: lasciar vivo il sospetto che sia davvero possibile cercare nome e cognome dell’autrice sull’elenco telefonico, non cancellare mai completamente l’idea romantica che da qualche parte, affacciati su una strada o una piazza partenopea, magari proprio fra quelle citate nelle sue storie, esistano una tenda, una persiana, un balcone dietro cui si nasconde una donna riservata e un po’ eccentrica, una che la mattina va a fare la spesa al mercato e poi trascorre il pomeriggio rispondendo alle domande della Paris Review. Mica è colpa sua, è colpa nostra: Ferrante esiste, siamo noi che non riusciamo a vederla. E comunque lei conduce tranquillamente la sua vita; il nostro bisogno di sapere chi sia è inadeguato, morboso e non ha a che fare con la vera cultura. Quello di Elena Ferrante è l’unico caso di anonimato letterario ricattatorio, ci governa e zittisce a suon di sensi di colpa.
Nel 1992 l’esordio dell’autrice senza viso e senza voce era stato candidato senza troppo clamore allo Strega, e senza troppo clamore bocciato. Nessun Roberto Saviano aveva dichiarato che la presenza di un autore così fuori dagli schemi avrebbe potuto «sparigliare le carte» di quel «gioco stantio», nessuna regola imponeva al concorso la presenza in cinquina di almeno un editore piccolo, nessun dibattito su quanto piccolo potesse essere un editore che pubblicava i propri libri in America e nel resto d’Europa era stato sollevato. Semplicemente, L’amore molesto era stato valutato nelle modalità solite del premio ed era stato tagliato fuori. Erano altri tempi. Ferrante era al primo romanzo, non era ancora stata tradotta (lo sarebbe stata con il successivo I giorni dell’abbandono), la letteratura non passava per Twitter e nessuno si era inventato #ferrantefever, l’hashtag per raccontare il delirio di giuggiole nei confronti della scrittrice misteriosa. Non c’erano sostenitori illustri come Zadie Smith e Alice Sebold, o addirittura i premi Pulitzer Jhumpa Lahiri e Elizabeth Strout; niente articoli sul New York Times né sul Guardian. Per Michael Reynolds, però, anche fuori dall’Italia il successo della Ferrante è merito dei lettori, sono loro ad averla resa «un caso che continua a stupire tutti noi: il passaparola è ancora il più importante mezzo di marketing che esiste».
Chi sono i comuni consacratori americani di una serie tutta napoletana? Che faccia hanno, cos’altro leggono? «Mi hanno sempre colpito due dettagli in apparenza contraddittori: quanto sia variegato il pubblico della Ferrante e, in secondo luogo, il fatto che ciascun lettore è convinto che lei scriva quasi esclusivamente per lui. Racconta esperienze e sentimenti che fanno parte della sfera privata del lettore, con cui stabilisce un legame personale profondo». Dalla mistica della Ferrante non si esce facilmente. Un nuovo senso di colpa, sottile ma frustrante, pervade chi l’ha letta volentieri ma senza farsi venire la febbre, come la sottoscritta. Non ho mai pensato che scrivesse soltanto per me, anzi a dirla tutta quando ho conosciuto i suoi primi libri ero giovane e presuntuosa e l’avevo archiviata come piacevole lettura per signore di mezza età, ma ammetterlo oggi potrebbe diventare imbarazzante: se dietro ci fosse qualcuno dei miei scrittori preferiti, addirittura un gruppo di loro, come spiegherei l’avergli affibbiato un giudizio tanto tiepido? E poi, ora che sono prossima alla mezza età, sono diventata io quel target. Però non riesco a togliermi dalla testa il desiderio forsennato di un coming out, che so, di Fabio Volo, non fosse altro che per godermi la faccia e le reazioni dei lettori più snob.
Chiedo a Reynolds se il napolicentrismo faccia la sua parte nella riuscita di certi nostri romanzi all’estero, penso a Ferrante ma anche a Roberto Saviano. È una questione di folklore? «No. Gomorra è andato molto bene negli Stati Uniti, ma è un ottimo libro che meritava di più. Altri autori sono andati altrettanto bene, se non meglio, come Alberto Angela, Andrea Camilleri e, ovviamente, Umberto Eco. Ognuno di loro viene da e racconta di una diversa regione d’Italia. Napoli, con tutte le sue contraddizioni, le tensioni, i colori, la disperazione e la bellezza, è un luogo affascinante per la letteratura. Ma non è un portafortuna». La Napoli della Ferrante non ha nulla di macchiettistico ma non elude i cliché: l’autrice è brava a mostrare un lato oscuro e insieme quotidiano di una città che tutti, compresi quelli che non ci sono mai stati, sentono familiare. Per diversi aspetti, è comprensibile che Elena Ferrante sia un caso internazionale. Come Donna Tartt è stata ambiziosa, già solo a partire dal numero di pagine. Due autrici diversissime ma entrambe maestose che trionfano nello stesso anno, come se dopo decenni di storie minimaliste, private, siano loro le prime ad aver compreso il bisogno di romanzi esagerati, di temi titanici anche quando al centro c’è un racconto famigliare. Dice Reynolds: «Credo che questa generazione di lettori cerchi libri monumentali in parte perché, dopo periodi in cui la storia passa in secondo piano rispetto allo stile o ai tentativi di sperimentazione, ci sarà sempre un netto ritorno alla trama, perché noi esseri umani siamo narratori: quello è il modo in cui comunichiamo meglio le nostre scoperte più importanti, le nostre intuizioni, il modo in cui ci scrutiamo».
Andrei a bussare alla persiana della Ferrante per ringraziarla di persona, se con il suo autorevole sdoganamento non dobbiamo più vergognarci di tenere tanto a una cosa considerata volgare come il plot. Conclude l’editor di Europa: «E poi non possiamo ignorare che questa generazione di lettori ha imparato ad amare la lettura con Harry Potter, Hunger Games, eccetera. C’è stato un fiorire di ottima letteratura Young Adults che raccontava grandi storie, dalla metà degli anni Novanta in poi. Quei lettori oggi hanno trenta/quarant’anni e, comprensibilmente, cercano un’esperienza che ricorda loro l’estasi, sì, estasi è la parola giusta, con cui devono aver conosciuto Potter e simili all’inizio dell’adolescenza». Lila e Lenù come Harry e Hermione: che immagine meravigliosa. Viste così, finalmente smitizzate dalla pretenziosa pesantezza che le precede e le opprime, la storie raccontate da Elena Ferrante hanno tutto un altro godibile profumo.