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Perché il ritiro degli Usa dalla Siria è un’ottima notizia per l’Isis
Donald Trump sostiene che lo Stato islamico sia stato sconfitto, ma la verità è molto più complessa.
Veicoli dell'esercito americano a sostegno delle forze democratiche siriane ad Hajin, nella provincia di Deir Ezzor, Siria orientale (15 dicembre 2018, Delil Souleiman/Afp/Getty Images)
Mercoledì 19 dicembre Donald Trump ha annunciato con un tweet l’intenzione di ritirare la presenza degli Stati Uniti dalla Siria. La motivazione data dal presidente è semplice quanto traballante: «Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica ragione per stare lì durante la presidenza Trump», ha scritto sul social network.
Come hanno scritto diversi analisti di politica internazionale, la decisione del presidente è stata presa contro il volere del Pentagono e degli alleati della zona, in particolare i curdi. Il New York Times ha parlato con Alan Hassan, giornalista curdo di stanza a Qamishli, una città a maggioranza curda e assira nella Siria nord-orientale, che ha detto: «Siamo scioccati. L’atmosfera qui è davvero negativa». Nonostante la presenza delle truppe statunitensi non fosse infatti numericamente enorme – si parla di duemila soldati – il loro ruolo è stato negli ultimi anni fondamentale per le forze curde. Come scrive Daniele Raineri sul Foglio di oggi, «sono la spina dorsale di quel dispositivo fatto di intelligence, raid di forze speciali, bombardamenti e appoggio agli alleati locali (le milizie curdo-arabe) che in tre anni ha spazzato via lo Stato islamico inteso come entità territoriale. È dalle basi in Siria che gli uomini della ETF, Extraordinary Targeting Force, partono per missioni veloci che sono cruciali per catturare o uccidere i leader dello Stato islamico».
Abbandonare le forze curde sarebbe però anche un favore alla Turchia di Erdogan: nel gennaio 2018 Trump propose la creazione di una forza curda, supportata dall’America, di circa 30mila uomini, per difendere i confini della Siria nord-orientale, ma la Turchia protestò contro quello che Erdogan chiamò un «esercito di terroristi» e il piano fu abbandonato. Pochi giorni dopo, la Turchia attaccò i territori curdi in Siria, creando un momento di altissima tensione tra quelli che sarebbero, teoricamente, due alleati nella Nato.
C’è poi il capitolo Isis: Donald Trump sostiene che lo Stato islamico sia stato sconfitto, ma la verità è molto più complessa. In un documento pubblicato la scorsa settimana da Maxwell B. Markusen, ricercatore al Center for Strategic and International Studies di Washington, si legge: «Alcuni politici statunitensi e iracheni stanno affrettandosi a dichiarare vittoria sul gruppo, usando parole come “sconfitti” e “scomparsi”. Ma lo Stato islamico è ben lungi da essere sparito».
Il gruppo, secondo il colonnello Sean Ryan, portavoce della coalizione a guida Usa, ha ancora circa 2500 soldati attivi nell’area di Hajin, l’ultimo territorio che è riuscito a controllare, sul fiume Eufrate a pochi chilometri dall’Iraq, e moltissimi altri – da venti a trentamila, secondo le stime – sono andati, come si dice, “underground”. È la stessa strategia – vincente – che l’Isis adottò precedentemente: trasformarsi in un gruppo silente, e fomentare le tensioni prima di riapparire alla luce del sole – una stessa strategia, vincente, già utilizzata da al-Qaeda in Iraq. Scrive ancora Raineri sul Foglio: «Il ritiro delle truppe americane dalla Siria è un grande regalo allo Stato islamico. Siamo al livelli della “mission accomplished” di Bush nel 2003 e del ritiro di Obama dall’Iraq nel 2011, due illusioni di vittoria che – viste con il senno di poi – erano molto premature e sono state il preludio di un peggioramento della situazione».
Forse non casualmente, il giorno stesso dell’annuncio di Trump del ritiro delle truppe, l’Isis ha annunciato di aver ucciso con una bomba a Raqqa – l’ex capitale del “cosiddetto” Stato – un combattente curdo. E l’attacco di Strasburgo ha mostrato quanto l’Isis sappia ancora ispirare terroristi in Europa, non solo in Medio oriente.