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Il problema della politica sui social non è la pubblicità

Twitter mette al bando l’advertising a tema politico ma tutto il resto, come su Facebook, non cambia.

di Federico Gennari Santori

Un cartellone fuori da una manifestazione per Beto O'Rourke a Dallas, in Texas, riporta un tweet di Donald Trump contro il senatore Ted Cruz (14 settembre 2018, foto di Laura Buckman/Afp/Getty Images)

Nella pur breve storia dei social media stavolta l’aggettivo “storico” non è soltanto lecito ma anche dovuto. Perché storica è la decisione comunicata la settimana scorsa da Twitter, che dal 22 novembre vieterà la pubblicità di argomento politico. Da quel giorno sulla piattaforma non sarà più possibile investire denaro per aumentare la diffusione di tweet che abbiano a che fare con elezioni, referendum e temi annessi. In un clima sempre più teso tra istituzioni e aziende tech, e con le presidenziali statunitensi del 2020 ormai alle porte, il fondatore e Ceo Jack Dorsey ha pensato bene di togliersi da ogni equivoco, lanciando un guanto di sfida a quello che fin dal primo istante è stato il convitato di pietra di tutta la vicenda: Facebook. “Cosa farà Mark Zuckerberg?”, ci si domanda. Ma visto che la storia non si fa con i “se”, prima occupiamoci di come è scaturita e di che cosa implica la decisione di Twitter, che nonostante gli apprezzamenti è tutt’altro che risolutiva.

Tanto per cominciare, un chiarimento. Twitter blocca la pubblicità a sfondo politico, ma non la possibilità di twittare qualunque cosa si voglia in materia di politica. Questo significa che continueremo a vedere i tweet di Donald Trump e anche, per dire, quelli di organizzazioni razziste. Senza contare che ben lungi dall’essere risolto è il più annoso problema di Twitter, ovvero l’utilizzo di account falsi e bot per influenzare il dibattito sulla piattaforma, che molti politici utilizzano (basti pensare alla “bestia” di Salvini) e che di fatto rende assai poco necessario pagare per raggiungere più utenti. Potremmo dire maliziosamente che il social network impone un blocco preventivo penalizzando tutti ed esimendosi dal fare i dovuti distinguo, a fronte di una mossa che, pur senza precedenti, non rappresenta certo un sacrifico economico. L’advertising di natura politica, come l’azienda stessa sottolinea, vale un pugno di dollari: appena 3 milioni in occasione delle elezioni statunitensi del midterm, che corrispondono a circa lo 0,1% dei ricavi dell’azienda, e un importo stimato analogo per il prossimo trimestre del 2019.

Con questo non vogliamo disconoscere la portata della scelta fatta da Twitter. Ma va ricordato che, tolta la pubblicità, la gestione dei contenuti politici non cambia rispetto a quella che molto più esplicitamente Mark Zuckerberg aveva descritto durante il suo discorso alla Georgetown University. E che la responsabile dell’organizzazione Sharyl Sandberg ha ripetuto a Bloomberg dopo le dichiarazioni di Dorsey, specificando che non le condivide. Facebook rivendica che non farà fact-checking sulle dichiarazioni dei politici, si tratti di pubblicità o meno. Così una pioggia di critiche si è abbattuta sull’azienda e Twitter, come in altre occasioni, ne ha approfittato per fare un improbabile scatto in avanti sul rivale. Concorrenza e reputazione a parte, le ragioni che hanno portato a questo scatto sono tre: una sbagliata, una encomiabile, una nascosta.

La prima, descritta da Dorsey, è che «il consenso politico va guadagnato, non comprato». Può anche sembrare una buona massima, ma da sempre la costruzione del consenso si basa, nel bene e nel male, anche sulla propaganda a pagamento. Per quanto possano essere diversi i social media, un’argomentazione del genere dovrebbe valere anche per la televisione, la radio e i cartelloni. E allora, guardandola dal punto di vista di un partito, perché per raggiungere i suoi scopi (soprattutto se non intende diffondere notizie false) gli si dovrebbe impedire di fare pubblicità sui mezzi di comunicazione più potenti della nostra epoca? Ecco che questa tesi e la sua applicazione, che non è esagerato definire pregiudiziale, appare più che discutibile.

La seconda ragione addotta da Dorsey consiste in una presa d’atto inedita. Considerando i rischi per la democrazia che ha comportato, le sfide tecnologiche sempre più difficili a cui fare fronte (machine learning, micro targeting, deep fake, ecc.) e le difficoltà nel governare tutto questo, è meglio sospendere del tutto la pubblicità a sfondo politico. A costo di perdere un po’ di denaro. Dorsey non manca però di ricordare che serve una regolamentazione migliore sugli annunci politici, ma anche che da parte dei regolatori serve impegno per definirla. E qui arriviamo alla terza ragione, quella nascosta ma forse più concreta. Perché, al di là del buon gesto e del riconoscimento della propria non autosufficienza, Twitter ha preferito eliminare del tutto gli annunci politici piuttosto che subire ulteriori danni reputazionali dovuti alla comunicazione fatta perlopiù dai politici e alle critiche che ne sarebbero derivate da parte dagli stessi politici. Bypassando una responsabilità, però, la piattaforma se ne è di fatto presa un’altra.

Facciamo un esempio concreto: in un Paese soggetto a un regime illiberale per i partiti di minoranza la pubblicità sui social media potrebbe essere uno dei pochi modi per sfuggire al controllo governativo.  Ancora: immaginando che il divieto si estenda a tutte le piattaforme digitali, i politici meno esposti mediaticamente e in cerca di notorietà potrebbero avere più difficoltà a emergere. Di più: come specifica la policy di Twitter, nell’advertising politico può rientrare un appello al voto per un certo candidato ma anche un argomento di interesse pubblico, come la critica o la richiesta di una legge in materia di immigrazione, sanità, ambiente. Possiamo supporre che un’organizzazione per i diritti umani non potrà investire denaro per campagne su argomenti del genere. La domanda allora è sempre la stessa: a chi spetta realmente decidere se e in base a che cosa censurare un determinato contenuto politico o impedire una pubblicità? Dov’è il confine tra ciò che deve decidere un’azienda privata e ciò che compete alle istituzioni pubbliche?

In quest’ottica le già citate rivendicazioni di Facebook non sono immediatamente liquidabili come fossero una presa in giro: in nome della libertà d’espressione e per rispetto del ruolo rivestito dai politici in democrazia, i loro post non solo potranno essere pubblicizzati ma non saranno nemmeno sottoposti a verifica dalla piattaforma. L’idea è che la parola di un politico non si limita a riferire un’eventuale notizia, ma è essa stessa una notizia. Facebook la fa semplice, ma vorrebbe comportarsi come già fanno alcuni media tradizionali: riportare automaticamente quello che dicono i politici senza responsabilità editoriali o giornalistiche a riguardo, stop. Anche perché – soprattutto dopo le polemiche dovute alla supposta riduzione di visibilità per i contenuti diffusi dai repubblicani statunitensi – possiamo solo immaginare a quali critiche si esporrebbe controllando le dichiarazioni di tutti i politici, cosa che oltretutto creerebbe un precedente rispetto alle notizie di ogni presenti sul social network. Figurarsi eliminando l’advertising a tema politico: Trump, che basa su questo la sua propaganda, sarebbe sul piede di guerra. Non è chiaro allora perché un social network dovrebbe lasciarsi affibbiare, oltre a quelle legate alle proprie inadempienze, anche responsabilità che solo in parte gli appartengono.

Siamo in una impasse ben rappresentata dallo scambio tra la rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez e Mark Zuckerberg nella sua recente audizione. Lei faceva domande calzanti ma recitava anche la sua parte di pasionaria; lui dava risposte vaghe fugando responsabilità ma con la tranquillità di chi, anche dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, è al timone di un colosso che nel terzo trimestre del 2019 continua a crescere superando le aspettative e che deve alle inserzioni politiche meno dello 0,5% dei suoi ricavi. Chi non vede l’incomunicabilità di fondo e magari si esalta per come Ocasio-Cortez ha “asfaltato” un “inerme” Zuckerberg si è perso un pezzo della storia. E sarebbe ora di finirla con il tifo mentre siamo alle prese con una questione epocale, che intacca la libertà di espressione, la democrazia e il liberismo economico, ma di fronte alla quale nessuno dei protagonisti sembra avere soluzioni.

In anni di dibattito si è parlato molto di errori e crimini delle piattaforme, di multe e scorporamenti, meno del quadro normativo o, meglio, del conflitto di attribuzione di responsabilità che lo neutralizza. E meno ancora del problema che c’è a monte, cioè che ancor prima di notizie false (o vere), linguaggio dell’odio e pubblicità c’è un algoritmo che regola la visibilità di ogni contenuto da parte degli utenti. Questo filtro deve o non deve riguardare anche i contenuti di ambito politico, a maggior ragione se in periodo elettorale? È da qui che bisogna partire. I politici non potranno continuare a criticare, chiedere correzioni o, come qualcuno ha fatto, invocare il rispetto di regole (che spesso nemmeno esistono) senza assumersi a loro volta le proprie responsabilità di fronte a una rete che per partito preso viene già definita “ingovernabile”. Perché le aziende non lo faranno e, semmai lo facessero, dovremmo preoccuparci ancora di più per la nostra democrazia. Dorsey ne ha fatto cenno nei suoi tweet, ma la scorsa primavera era stato proprio Zuckerberg dalle colonne del Washington Post a rivolgere alla politica un appello, anche qui tacciato da molti come una resa: «Aiutateci perché non possiamo fare tutto da soli». Una bella faccia tosta, certo, ma il paradosso vuole che avesse almeno una parte di ragione. Troppo spesso la classe politica si è esibita in presunte “asfaltature” senza rinunciare ai propri investimenti sui social network e senza fare vere proposte. Forse il blocco dell’advertising su Twitter servirà da sollecito. Intanto attendiamo la mossa di chi, per introiti e ripercussioni, ha molto più da perdere: Facebook e Google. Facciamolo senza troppe illusioni.