Attualità | Esteri
Nuove dittature digitali
Considerati fino a poco tempo uno strumento di democrazia, i social media sono sempre più spesso utilizzati dai regimi autoritari, dall'Egitto a Cuba.
Un manifesto di Al Jazeera a Times Square con lo slogan "Journalism Is Not A Crime'" chiede la liberazione di un giornalista imprigionato in Egitto (Photo by Thos Robinson/Getty Images for Al Jazeera America)
Nulla di simile era mai accaduto prima. Nel “venerdì della rabbia”, quel 28 gennaio 2011 in cui migliaia di persone dopo giorni di protesta in tutto l’Egitto erano ancora una volta scese in strada per chiedere la fine del regime del dittatore, il dittatore ha risposto spegnendo internet. Con stupore, gli analisti di tutto il mondo spiegavano a televisioni e giornali: «Il traffico dati in entrata e in uscita dall’Egitto è crollato del 90 per cento», in un Paese di 80 milioni di abitanti in cui più di 19 milioni di persone avevano allora accesso al web. Nell’incapacità di controllare uno degli strumenti che permetteva agli attivisti di organizzare il dissenso – i social media – l’allora presidente Hosni Mubarak scelse la soluzione più radicale (che non gli garantì la salvezza politica).
Oggi, nulla di simile potrebbe accadere. Nella regione, quegli autocrati che sono sopravvissuti al 2011, o sono arrivati al potere dopo quell’era di rivolte, hanno imparato la lezione. E piuttosto che spegnere internet, sfruttano il web e i social media che negli ultimi dieci anni hanno rotto il muro della censura di regime. Per rendersi conto di come la strategia delle dittature sia cambiata, è sufficiente guardare a come nelle scorse settimane la monarchia saudita abbia tentato di imporre la propria narrativa sui social arabi dopo la scomparsa del giornalista Jamal Khashoggi. Da anni, il regno ha mobilitato un esercito di troll per dirigere la contro-informazione. Così, Khashoggi è diventato in poche ore sui social arabi orientati dal regime un pericoloso estremista. Saud al-Qahtani, alto consigliere del principe ereditario Mohammed bin Salman, è stato licenziato quando le cose hanno iniziato a mettersi veramente male per il governo di Riad. L’uomo, soprannominato da alcuni lo Steve Bannon saudita, quando nel 2017 scoppiò la faida tra Arabia Saudita e Qatar, e il Golfo impose l’embargo sul piccolo emirato reo per Riad di sostenere il gruppo islamista dei Fratelli musulmani, introdusse l’hashtag #TheBlacklist, la lista di proscrizione. «Molti sauditi hanno sperato che Twitter potesse democratizzare il dibattito dando a ogni cittadino una voce», ha scritto il New York Times recentemente, «ma l’Arabia Saudita è invece diventata l’esempio di come i governi autoritari possano manipolare i social media per silenziare o soffocare le voci critiche, diffondendo la loro versione della realtà».
Così, l’Egitto del rais Abdel Fattah al-Sisi non spegne più internet, lo monitora o lo sfrutta. Gli agenti dei servizi segreti interni hanno fatto irruzione all’alba, in un giorno di maggio quest’anno, a casa dell’attivista Amal Fathy e del marito Mohammed Lofty. Hanno portato i due, assieme al figlio piccolo, in caserma. Da allora, Amal Fathy è in carcere, con l’accusa di diffondere fake news con l’obiettivo di «far crollare il regime egiziano», «danneggiando l’ordine pubblico e l’interesse nazionale». Ad aver innescato l’ira del governo è stato un video postato su Facebook, in cui Amal critica le diffuse molestie sessuali nei confronti delle donne nel Paese. La stessa accusa – diffondere notizie tendenziose – è stata mossa nei confronti di una turista libanese, Mona el-Mazbouh, dopo che la donna ha pubblicato su Facebook un video in cui si lamenta durante la vacanza d’essere continuo oggetto di molestie verbali nelle strade del Cairo. Dopo essere stata incarcerata e condannata a otto anni di prigione, un tribunale egiziano ha ridimensionato la sentenza e la donna è riuscita a tornare nel suo Paese. E sempre per aver diffuso false notizie è stato incarcerato a ottobre, e rilasciato soltanto pochi giorni fa, un accademico colpevole per il governo di aver criticato le politiche economiche del presidente. Da quando l’Egitto ha varato una controversa legge anti-fake news, applicata nei confronti di organizzazioni mediatiche ma anche di individui con più di 5.000 followers sui social, il già vasto potere repressivo degli apparati di sicurezza si è rafforzato.
Non sono soltanto gli attivisti mediorientali ad aver provato nel giro di pochi anni il potere dirompente delle nuove tecnologie sulla diffusione del dissenso e poco dopo anche il rischio che i social media nelle mani dei regimi possono rappresentare per le libertà personali. Yoani Sanchez, blogger cubana della prima ora, nel 2008 ha iniziato a rompere il muro della censura di regime attraverso il web. Oggi, racconta un disincanto nei confronti di quei mezzi che sono certo ancora oggi un’arma di protesta, ma che rischiano sempre più spesso di diventare una trappola fatale. «A Cuba avevamo l’illusione di usare le nuove tecnologie per migliorare il mondo», ci racconta, con alle spalle il mar Mediterraneo, in un grande albergo del principato di Monaco, dove si è svolto l’evento europeo per i 50 anni della Fondazione Robert F. Kennedy Human Rights. Le è stato consegnato in quell’occasione il Robert F. Kennedy Journalism Award. Oggi Sanchez sostiene che «certo, le nuove tecnologie migliorano il mondo, ma i governi hanno tratto i loro insegnamenti» da questi anni di tumulti e trasformazioni. Il governo cubano, come i regimi mediorientali, ha capito che poteva utilizzare il social media, «e ha creato una squadra di cyber-rivoluzionari per contrastare i dissidenti». Per Yoani Sanchez «le nuove tecnologie non hanno un’etica in sé: c’è chi ruba informazioni private, chi fabbrica fake news». Per quasi 60 anni a Cuba c’è stato un controllo assoluto del partito comunista sulla stampa. L’unico modo che hanno avuto gli attivisti per aggirarlo è arrivato con l’avvento dei nuovi media. E improvvisamente, il mondo dentro Cuba ha ricevuto voci diverse, da fuori. «Gli hashtag non creano cambiamento, ma possono avere un effetto su come far crescere una coscienza sociale», dice la blogger, «la rete non ha cambiato Cuba, ma ha cambiato i cubani, che stanno sempre meno zitti e sanno sempre di più quello che accade fuori. Il governo dice che Cuba è il paradiso, ma loro sanno che non è così».
L’allarme è quindi sollevato da tempo: le nuove tecnologie, nelle mani sbagliate, possono essere una minaccia allo stato di diritto. “Fake news, raccolta dati: una sfida alla democrazia” è non a caso il titolo del rapporto annuale di Freedom House sulla libertà online. «La disinformazione e la propaganda online hanno avvelenato la sfera pubblica» è scritto nel documento «e una schiera di Paesi si muove verso l’autoritarismo digitale, sposando il modello cinese di censura estesa e sorveglianza automatizzata dei sistemi. Il risultato di queste tendenze è che nel 2018, per l’ottavo anno consecutivo, la libertà globale di internet è diminuita». Lo scandalo di Cambridge Analytica, in cui è stato rivelato come Facebook abbia esposto i dati privati di oltre 87 milioni di utenti, l’azione degli hacker russi durante il voto americano del 2016, ma anche l’attività di propaganda e incitazione all’odio etnico contro le minoranze di troll in Paesi come Bangladesh, India, Sri Lanka e Myanmar sono soltanto alcuni degli esempi contenuti nello studio.
Non ci sono però soltanto false notizie o cattive notizie: blogger in Kenya hanno recentemente sfidato la costituzionalità di una legge nazionale contro il cyber-crimine, obbligando il governo a emendarne una parte che ritenevano pericolosa per la libertà di espressione. Il nuovo presidente malese ha promesso la cancellazione di una controversa norma contro le fake news. Oltre 500 milioni di cittadini dell’Unione europea hanno ottenuto diritti per quanto riguarda la privacy dei loro dati online. «Assicurare la libertà di internet contro l’ascesa dell’autoritarismo digitale è fondamentale per proteggere la democrazia», è l’avvertimento di Freedom House.