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A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.
L’unica persona ancora convinta che Trump non sapesse niente dei traffici di Epstein è l’addetta stampa della Casa Bianca Nonostante le ultime rivelazioni riguardanti gli Epstein Files, Karoline Leavitt continua a ripetere che «il Presidente non ha fatto nulla di male».
È uscito il primo trailer di Marty Supreme, il film sul ping pong con cui Timothée Chalamet punta a vincere l’Oscar Il film di Josh Safdie è stato accolto con entusiasmo dalla critica e il suo protagonista è già lanciatissimo verso la statuetta per il Miglior attore. 
Da oggi scatta il blocco ai siti porno per i minorenni, solo che al momento non è bloccato niente Dal 12 novembre i portali per adulti devono controllare l'età degli utenti con un sistema esterno e anonimo, che però non è ancora operativo.
È morto Homayoun Ershadi, leggendario attore iraniano che Abbas Kiarostami scoprì a un semaforo Il suo ruolo ne Il sapore della ciliegia lanciò una carriera iniziata per caso: nonostante il successo, non si è mai sentito un vero attore.
Papa Leone XIV ha rivelato i suoi quattro film preferiti e tra questi non ci sono né ConclaveThe Young Pope E neanche Habemus Papam e I due Papi né nessun altro film che parli di Papi.

The words are important

Perché prendersela con lo studio dell'inglese non è un'idea molto saggia. In risposta a Tullio Gregory

12 Marzo 2012

Di Tullio Gregory (1929) si conosce e si apprezza giustamente il fruttuoso e fondamentale lavoro filosofico e storico svolto in quasi sessant’anni di carriera. Senza di lui non disporremmo di una delle letture più feconde del rapporto tra pensiero medievale e pensiero moderno per non dire del suo contributo alla cultura italiana in senso lato, in qualità di collaboratore di lungo corso dell’Enciclopedia Treccani. Rispetto ai tanti opinionisti domenicali con il patentino d’intellettualità auto-conferito, Gregory gioca quindi – lo dimostrano i riconoscimenti ottenuti in tanti decenni di attività – in un altro campionato, se non un altro sport, e va letto e ascoltato con attenzione. Fatta questa doverosa premessa dobbiamo però aggiungere che di Tullio Gregory non è possibile apprezzare e neppure condividere alcune recenti posizioni aventi come oggetto lo studio della lingua inglese nel nostro paese. All’inizio di un articolo intitolato (e il titolista ci ha messo del suo) ‘La retorica dell’inglese per tutti‘ e apparso sul Corriere della Sera del 7 marzo, il professore infatti esordisce in questo modo:

Mentre la conoscenza e la pratica della lingua italiana regredisce nelle nostre scuole medie e la capacità di comprendere un testo scritto è sempre più ridotta negli adulti, si apre il miraggio dell’inglese come lingua comune dalle scuole alberghiere all’università: tutti dovranno parlare inglese, i portieri d’albergo come i professori, almeno per i dottorati di ricerca

Salvo poi sviluppare, nel seguito del testo, tutta una serie di altre riflessioni inerenti l’idea di cultura che si sta affermando nel nostro paese, la necessità di valorizzare anche economicamente l’insegnamento e chi lo pratica, l’importanza di tenere separate le istanze accademiche da quelle imprenditoriali, la difesa dei saperi classici, letterari e filosofici in cui l’Italia può ancora primeggiare nel mondo. Posizioni per la maggior parte condivisibili e meritevoli di approfondita considerazione. Ma allora, proprio per questo, ci si chiede: a che pro “tirare in ballo” l’inglese in un discorso che si sarebbe comunque retto saldamente in piedi anche senza utilizzare la lingua di Shakespeare come apripista polemico?

Sembra che in Italia qualunque ragionamento intorno a possibili passi avanti ci metta un attimo a diventare preda del demone della logica disgiuntiva, per cui se si ambisce a un risultato questo ne deve escludere per forza un altro. O l’inglese o la cultura classica. O la difesa del nostro patrimonio culturale o l’efficienza meritocratica delle nostre università. Con il risultato d’impantarci nella costruzione di tesi e antitesi senza raggiungere mai una sintesi e lasciare alla fine tutto come lo si è trovato, anche quando, come in questo caso, la sintesi sarebbe lì, a portata di mano, e sta molto semplicemente nel considerare l’inglese niente di più e niente di meno che uno strumento in più nella cassetta degli attrezzi del cittadino italiano. La “battaglia” per colmare il gap che fa dell’Italia uno dei paesi meno anglofoni d’Europa non coincide per forza con l’oblio di Cicerone, anzi. Una cosa non esclude l’altra. Non mi risulta che in Germania dove l’inglese è molto più diffuso che da noi si sia smesso di studiare Kant e leggere Goethe per questo o, in Olanda, Erasmo e Spinoza.

Pensare ancora all’inglese come la lingua dell’egemonia economico-culturale che spazzerà via la nostra storia, i nostri autori, i nostri valori non è solo ingenuo e sbagliato, è anche pericoloso. Non sono più i tempi di “ammazza sti ‘mmerigani” e l’inglese, piaccia o meno, oggi è il territorio comune su cui, per robuste ragioni storiche, una vasta fetta del mondo ha scelto di incontrarsi per comunicare ed è solo sapendolo maneggiare che l’Italia può sperare di difendere e affermare, tra le altre cose, anche la sua enorme dote di cultura classica. Non è solo la lingua del business, di Wall Street e della City, è anche la lingua attraverso cui un giovane italiano e un giovane belga possono riuscire a scambiarsi idee sulla Scuola di Chartres, tanto per fare un esempio di certo gradito a Gregory; è un mezzo indispensabile per vivere con piena auto-determinazione e auto-sufficienza  nel presente. E questo vale sia per il turista che ha frequentato la scuola alberghiera sia per lo scienziato uscito dalla Normale. L’inglese non risolve i problemi dell’istruzione nostrana né migliorerà necessariamente le capacità di comprensione di un testo scritto negli adulti italiani, ma non conoscerlo rappresenta un problema in più e non uno in meno (il che, peraltro, si può dire di tutte le lingue).

Di sicuro un uomo erudito e di mondo come Tullio Gregory non può non avere perfettamente chiaro tutto questo e la sua era probabilmente più che altro una provocazione da esperta volpe accademica (e su una cosa ha ragione: stop alla retorica – dalla meno seria,  le famigerate 3 I di Silvio, alla più sostanziale del ministro Profumo – e si passi a fatti concreti) ma si sa, basta un attimo perché le provocazioni vengano fraintese, e leggere sul Corriere della Sera, il “foglio” che dovrebbe riflettere le eccellenze del paese, un titolo (che peraltro rappresentava il 70% del problema) come ‘La retorica dell’inglese per tutti’, giova solo alla causa della retorica.

Come diceva Nanni:  “le parole sono importanti”.

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