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The Weeknd, la luce in fondo al tunnel

Dawn FM, il nuovo album appena uscito dell'artista canadese, è una grande produzione pop, ecumenica e nostalgica, che è anche una ricerca di speranza.

10 Gennaio 2022

In un curioso caso di nostalgia esponenziale, sono già passati quasi nove anni dall’uscita di Random Access Memories dei Daft Punk, un monumento alla retromania a 360 gradi, non soltanto nel sound e nei riferimenti, ma anche per gli ospiti e per le sue modalità produttive e promozionali. Nel suo recente Futuromania, Simon Reynolds si rallegrava del fatto che, tutto sommato, quel disco non avesse poi dato il la a grandi schiere di imitatori, e fosse rimasto tutto sommato un unicum. A cambiare la musica in questi anni sono stati soprattutto producer più o meno (almeno all’inizio) amatoriali, casalinghi, più avvezzi al campionamento non autorizzato e ai software craccati che non ai recording budget faraonici e ai session man più quotati.

O meglio, questo è stato vero fino a qualche anno fa. Tra i pochi nomi che sicuramente si possono permettere di realizzare i dischi come si faceva decenni fa, oggi c’è sicuramente The Weeknd. Abel Tesfaye, da Toronto, arrivava all’attenzione del mondo nel 2011, più o meno dalla mattina alla sera, con un mixtape (in questo caso un album che conteneva campionamenti non autorizzati) intitolato House of Baloons che si prendeva un 8.5 e Best New Music su Pitchfork, mettendo il suo misterioso autore sui radar di tutti gli appassionati. Il lavoro era il primo di una trilogia, tutta pubblicata nello stesso anno, che resta probabilmente la sua massima espressione artistica, nonché una grandissima influenza sul suono di quegli anni. Non solo Drake ha preso diligentemente appunti, ma perfino popstar come Beyoncé hanno finito per avvicinarsi a quell’rnb super scuro, malinconico e tossico di cui Tesfaye è stato il principale esponente e che ha avuto infiniti imitatori.

Se quello resta forse il suo apice artistico, non meno interessante è osservare il percorso che il canadese ha intrapreso all’interno di uno star system prima osservato con sguardo decadente da un angolo della stanza e di cui poi è diventato protagonista. A quella trilogia sono seguiti alcuni album riusciti a metà, alcune hit (fondamentale “Can’t Feel My Face”, che ha dato un po’ la linea per quello che poi è seguito), collaborazioni importanti e in generale un ruolo sempre più importante nel mainstream contemporaneo, fino alla vera e propria esplosione con After Hours, uscito nel marzo del 2020, proprio all’inizio della pandemia. Con la direzione artistica di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), un grande lavoro su ogni aspetto del suo immaginario, e un progetto coerente e di lunga durata – non incentrato su qualche singola hit – quel disco ha segnato il suo ingresso nel vero e proprio olimpo del pop, definitivamente sancito in pompa magna dallo show durante il Super Bowl del 2021.

Queste sono le, a dir poco ambiziose, premesse che stanno dietro a questo nuovo Dawn FM, quinto album, ancora una volta cesellato a quattro mani con Lopatin, e ancora una volta estremamente studiato anche nell’estetica e nell’immaginario. Agli albori della sua carriera, per timidezza, The Weeknd non si faceva mai vedere in faccia, e i suoi primi mixtape erano accompagnati esclusivamente da foto molto Instagram-friendly; in seguito ha cominciato a giocare molto sul personaggio, e in particolare sulla sua maschera, mostrandosi insanguinato, sfigurato dalla chirurgia estetica, e cose di questo tipo. Questa volta, in una copertina non bella ma molto memabile, si mostra in primo piano, invecchiato di quarant’anni, la battuta su come ci ha conciati la pandemia in soltanto un paio d’anni è fin troppo facile.

E del resto è forse proprio la pandemia, e come ha cambiato i nostri desideri, ad avere contribuito più di ogni altra cosa al successo del suo album precedente, e di questo che segue sulla stessa linea, dischi in cui a farla da padrone è il desiderio di fuga, il rifugio in tempi e atmosfere migliori di queste. Se il presente pandemico ha posto un freno ai consumi e alla socialità dell’Occidente, verso quale Arcadia si rivolge l’escapismo di The Weeknd? Verso il synth pop moroderiano degli anni Ottanta, le FM Radio, la Miami dallo skyline edificato con i soldi dei Cocaine Cowboys e la Los Angeles di American Gigolo e di Bret Easton Ellis. Un’Arcadia tutta mediata culturalmente, vissuta solo vicariamente da Abel e nei ricordi d’infanzia radiotelevisivi da Lopatin.

È lo stesso Tesfaye a dichiarare che i primi tentativi di lavorare a questo album stavano portandolo verso una direzione troppo scura e triste, non catartica, e che ha scelto di accantonarli per una fantasia di fuga. Il disco si presenta infatti come una sorta di concept album, ascoltato attraverso una stazione radio (il cui speaker è Jim Carrey) mentre si è imbottigliati nel traffico dentro a una galleria, dirigendosi progressivamente verso l’uscita dal tunnel. Quello che in After Hours era implicito qui diventa esplicito: se Tesfaye si sta chiaramente rifacendo da anni a Michael Jackson, qui c’è un brano narrato nientemeno che dalla viva voce di Quincy Jones (a rispecchiare il Moroder di Random Access Memories), il suono FM nostalgico è incarnato dal campionamento di un brano di city pop giapponese, e l’influenza dell’immaginario Ellisiano confermata da un pezzo che si intitola “Less Than Zero”, lo statuto di superstar dalla scelta di collaboratori di Serie A.

È un disco un po’ troppo lungo e con una parte centrale un po’ più debole del resto, ma resta un successo sicuro: pop ecumenico che rifacendosi agli Ottanta abbraccia non solo bambini e teenager, i più facili da conquistare nell’era dello streaming, ma riesce ad arrivare fino ai cinquantenni. Nel suo (ri)abbracciare una tendenza che è ormai ampiamente consuetudine, rifacendosi a MJ, The Weeknd si mette sulla scia di quella che è forse l’ultima popstar universalmente sdoganata anche dai rockisti più intransigenti (certo non lo sono questo degli anni Novanta, né tantomeno quelle dei decenni successivi), andando verso un successo garantito. Un successo di cui ha smesso di cantare i lati più oscuri, o che perlomeno ha scelto di accostare anche a espliciti elementi di speranza. “Ce la faremo”.

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