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Le tendenze musicali non esistono più

Il 2021 è stato un anno strano per la musica: i bei dischi non sono mancati, ma nessun artista è ancora riuscito a racchiudere in un album lo stranissimo momento storico che stiamo vivendo.

di Federico Sardo

FKA Twigs (Photo by Steve Jennings/Getty Images)

Ci ho provato in tutti i modi a cercare di capire quale possa essere stata una tendenza che abbia caratterizzato la musica nel 2021. Che si tratti di Italia o dello scenario globale, di underground o di mainstream, alla fine non ce n’è una che mi abbia portato a dire “sì, la musica del 2021 è stata profondamente segnata da questa cosa”.

Una delle più gettonate, in ambito mainstream e italiano, in particolare in ambito rap (che di mainstream è quasi sinonimo) è quella del “ritorno dei quarantenni”: sicuramente dal punto di vista della critica gli ultimi due dischi di Marracash (ma anche quelli di Gué e di Salmo, e l’attesa per quelli di Noyz e di Fibra) possono far pensare questa cosa, ma di fatto, se andiamo a vedere i numeri dei più ascoltati nel 2021, tra i nomi di punta ci troviamo anche Rkomi, Blanco, Madame, Plaza, Sfera, Ernia e Tha Supreme. Nello stesso ambito, il 2021 sembrava l’anno dei producer album: effettivamente ne sono usciti tanti, ma se quelli di Skinny ci avevano abituato bene e quello di Mace ha effettivamente sbancato tutto, altri non si sono attestati allo stesso livello, e probabilmente la tendenza andrà a diminuire.

Il nome mainstream italiano più chiacchierato del mondo, e che più si distacca dalle sonorità urban, è sicuramente quello dei Måneskin, che però al momento non rappresentano alcun tipo di tendenza. Se hanno generato un interesse per una certa estetica rock, per il momento non ci sono altre band che stiano seguendo quella strada. Forse arriveranno, in futuro. C’è un’altra band di stampo chitarristico che si sta facendo notare in tutto il mondo: gli Idles, primi in classifica in Inghilterra, concerti con 40mila persone, in classifica anche negli USA. Però la loro estetica è del tutto diversa: sono indie in tutto e per tutto, non si vestono di pelle e, a parte per la strumentazione, il loro stile e il loro suono sono del tutto diversi da quello degli italiani, sembra davvero forzato inserirli nello stesso calderone per una rinascita rock. Ho sognato, poi, che il mondo si fosse accorto che la musica chitarristica più interessante da molti anni a questa parte viene da certe zone dell’Africa, e in particolare dal deserto. Purtroppo il fatto che Pitchfork si sia accorto di Mdou Moctar (non con il suo disco migliore ma con quello che esce su Matador, pazienza), e che questi finisca pure nella playlist di fine anno di Obama, non significa che il mondo abbia improvvisamente realizzato che è almeno dal 2003 (anno di uscita di Amassakoul dei Tinariwen) che la critica underground parla delle chitarre psichedeliche di questi hendrixiani del Sahara, e che forse l’unico tipo di rock che abbia ancora senso ascoltare è quello uscito per etichette come Sublime Frequencies e Sahel Sounds. Sarebbe bello, ma non è così: Mdou Moctar è una cosa che di fatto resta relegata ai soliti quattro gatti.

Un’altra tendenza che potrebbe suonare iper-contemporanea è quella del covidcore: definizione probabilmente coniata da Francesco Farabegoli per i dischi nati durante la pandemia e che ne incarnano in qualche modo lo spirito, per le loro modalità di realizzazione, per il mood o quant’altro, e in effetti se qualcosa ha segnato l’industria musicale nell’ultimo anno è la pressoché totale assenza di concerti. Tutto bello e interessante, però a livello discografico era una tendenza del 2020, che nel 2021 non si è poi sviluppata molto. Forse il disco più significativo di questa corrente è How I’m Feeling Now di Charli XCX, uscito non a caso nel maggio del 2020. Un’altra tendenza recente è la normalizzazione di quelle popstar che stavano un po’ fuori dai canoni del pop, come appunto Charli XCX ma anche FKA Twigs, che dopo cose davvero interessanti se ne sono poi uscite con lavori annacquati, normalizzati, da radio qualunque. Era il 2019, però.

Dischi belli ne sono usciti, per carità, solo che non sembrano essere particolarmente adatti a caratterizzare questo tempo. Spesso sono nuovi lavori di gente che quelle cose le fa già da tempo, come nei casi di Madlib, Senyawa, Low, The Bug, Shackleton e Black Dice, o dischi che sarebbero potuti uscire identici dieci o vent’anni fa (Space Afrika, bellissimo) o che stanno fuori dal tempo, a fare storia a sé (Floating Points e Pharoah Sanders). Anche nei casi di musica estremamente legata al momento storico (Sault, Little Simz) non sembra di sentire qualcosa di lanciato verso il futuro o che possa indicare una tendenza particolare.

È innegabile che nel recente passato alcune tendenze ci siano state. Dopo il 2000 ci fu il revival del garage rock, di una nuova leva di cantautorato acustico, dell’esplosione della blog house prima e della dubstep dopo, degenerata successivamente in bro-step e nei dj superstar. Poi è giunto il momento della trap. E, sempre in ambito rap, il grime ha continuato ad andare e venire, e negli ultimi anni si è parlato molto di drill. Non hanno cambiato il mondo, ma sempre nell’ultimo decennio nelle nicchie si è effettivamente fatto un gran parlare di witch house, di vaporwave e di altre cose che hanno lasciato un paio di dischi buoni e il segno su un paio di anni scarsi. Ora mancano le nuove tendenze o manca chi dà loro un nome?

Bad Bunny (Photo by Frazer Harrison/Getty Images for MRC)

Circa dieci anni fa c’è stata una tendenza senza nome nell’elettronica underground, quella rappresentata da etichette come Tri Angle e Blackest Ever Black, fatta di atmosfere scurissime e apocalittiche. Ora che il mondo sembra essersi sintonizzato su quella stessa lunghezza d’onda, nessuno sembra quasi più ricordarsene. Subito dopo quella storia, a volte come sua propaggine, con uscite su PAN che non si capiva bene dove classificare, è arrivata la conceptronica, che ha un nome perché così l’ha chiamata Simon Reynolds. Alcuni sostengono che oggi sia ancora più difficile che in passato fare questo tipo di ragionamenti perché i generi sono più morti che mai. Che la fluidità, dei generi e delle identità, è la tendenza. Ma anche Arca o Sophie non sono certo più delle novità. Che forse i generi musicali definiti rimarranno come nicchie, ma che il mainstream sarà sempre più un miscuglio fatto di strutture hip hop, suoni rock, melodie pop, elementi latini (il successo di J Balvin e Bad Bunny e la loro influenza sulle classifiche globali sono un’altra realtà che francamente sembra un po’ tardi per identificare come tendenza) e quant’altro. I ragazzini ascoltano di tutto, e questo si riflette nella musica che fanno.

In Italia, del resto, il pop è già diventato rap e indie, l’indie è diventato il nuovo pop, e il rap a sua volta è andato a pescare a piene mani da quei generi (i successi di Rkomi e Chiello). L’impressione è che quando le nicchie diventano mainstream, l’underground diventi sempre più invisibile. Non aiutato anche dall’impossibilità di riunirsi intorno a luoghi di aggregazione, live, e tutto quello che aiuta la creazione di una scena. Per l’Italia mi viene in mente un giro hyperpop interessante, che pure fa quello che facevano i 100 Gecs nel 2019 (che è poi curiosamente quello che faceva Pop-X nel 2011), e i cui elementi più brillanti forse finiranno per avere un contratto come autori in major. Forse il vero underground oggi è quello che viene dai paesi non occidentali, che è anche quello che nonostante tutto le testate specializzate fanno fatica a coprire sistematicamente.

In queste righe ho citato più volte il 2019 come se stessi parlando degli anni Ottanta. In questo eterno presente, nell’accelerazione costante, il revival è istantaneo, la retromania è a sua volta vecchia, e si capisce dunque la mania delle ristampe, per la quale è più sicuro affidarsi a qualcosa di già storicizzato e che ci viene presentato come “perduto capolavoro” o “necessario e imperdibile”, che non a una assoluta novità, per la quale non abbiamo giudizi già sedimentati e approvazioni culturali già attribuite. Anche quella delle ristampe non è più una tendenza, ed è ormai una consuetudine. Il mondo è sempre stato vasto e complesso ma forse mai quanto ora abbiamo avuto idea della sua vastità e della sua complessità, e dell’impossibilità di stare dietro a tutto. Ma, del resto, mai come ora tutti ascoltano tutto. Negli anni Ottanta i generi musicali funzionavano anche come manifesti identitari, in una sorta di guerra tra bande; oggi è normale ascoltare in sequenza, per rimanere aggiornati, un disco dei Deafheaven e uno di Kanye West. Anche per via di una barriera all’ingresso ormai pressoché annullata (il supporto è sempre più un semplice gadget, e la stampa dei dischi un inferno), per quanto sopravvivano sacche di resistenza, a livello collettivo la fruizione è cambiata.

Intanto, l’ascolto sempre meno attento e coinvolgente privilegia il sottofondo, le playlist, l’algoritmo ansiolitico di YouTube che ha portato alla riscoperta dell’ambient giapponese e del City Pop. E a loro volta questi influenzano nuove generazioni, come quella che ha risemantizzato il termine lo-fi – che ora somiglia molto più a quello che una volta chiamavamo trip-hop che non ai Guided By Voices – in un uroboro nel quale riprendiamo i giapponesi che riprendevano le FM radio occidentali. Ancora, ci sono cantanti che diventano superstar in una settimana grazie a TikTok, e canzoni che totalizzano più streaming in una settimana che nei trent’anni precedenti grazie a una video reaction su YouTube. Forse sono queste le nuove tendenze, che hanno più a che fare con le modalità di fruizione e con il mondo circostante che con la musica in sé. Forse ognuno vive il suo personalissimo spirito del tempo, e mi sembra che nella musica sia meno dirompente quella tendenza che ha colpito fortemente il cinema e le serie tv per la quale in una determinata settimana, sui social network, tutti scrivono dello stesso argomento. Un mondo anche fin troppo condiviso. Ma è forse poi così diverso da quando a scuola tutti parlavano del film andato in onda la sera prima? Ora, vicariamente, attraverso i nostri schermi, possiamo vivere nella sua interezza l’impressione di un presente sempre più ampio e complesso. Ci sono decenni in cui non accade nulla, e settimane in cui accadono decenni. Ma forse è solo un’altra illusione.