Cultura | Teatro

Come sta il teatro oggi

A partire dal docufilm sul Teatro della Pergola di Firenze, un dialogo con Stefano Accorsi e Tommaso Sacchi, Presidente della Fondazione Teatro della Toscana.

di Serena Scarpello

Teatro Della Pergola - Pubblico in galleria, foto di Filippo Manzini - Courtesy Fondazione Teatro Della Toscana

«Un tavolo di ferro, degli attori, dei fiori. Sono i personaggi di Gente di Dublino, i racconti scritti da James Joyce del 1914 e messi in scena dal regista Giancarlo Sepe prima che la pandemia chiudesse i teatri». Inizia così il docufilm La Pergola – Confessioni di un teatro, in onda su Sky Arte dal 30 settembre (e disponibile on demand su Sky e in streaming su NOW), raccontato da Stefano Accorsi, Direttore Artistico della Fondazione Teatro della Toscana, e dai giovani della scuola teatrale de l’Oltrarno, con le musiche originali di Rodrigo D’Erasmo e la partecipazione di Manuel Agnelli. Un lavoro che arriva dopo due anni di pandemia durante i quali il teatro ha assunto un ruolo nuovo nella coscienza stessa delle persone. «Abbiamo sofferto molto della mancanza degli spettacoli dal vivo, così come della visita ad un museo», spiega Accorsi. «Ci siamo resi conto di quanto conti per noi. L’altro giorno all’Ambra Jovinelli di Roma, dove si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della nuova programmazione, c’erano circa 240 persone quando prima mediamente partecipavano in 60-70. Mi auguro che questa ripartenza segni effettivamente un ritorno ad un ruolo sociale e civile del teatro e che lo aiuti a scrollarsi di dosso una serie di dinamiche che a tratti l’hanno portato a cristallizzarsi su delle logiche burocratiche e non meramente di spettacolo».

Quelle logiche che ancora oggi stanno rallentando le decisioni in merito alla capienza permessa nei luoghi della cultura. Secondo Accorsi siamo arrivati a questo punto a causa di un fraintendimento sull’essenza stessa del teatro «troppo spesso considerato e quindi gestito come mero svago». Mai come nell’ultimo periodo abbiamo capito quanto il teatro e tutte le forme d’arte contribuiscano a formare le nostre coscienze. «Durante la fase del lockdown la politica aveva chiesto al mondo artistico di creare dei contenuti per stare vicino alle persone, e ognuno l’ha fatto in base alla propria sensibilità. Ma quando è arrivato il momento di ripartire ci sono stati continui rallentamenti. Io non sottovaluto assolutamente la nostra salute, dico solo che questo tipo di spazio avrebbe meritato un ragionamento a parte, anche perché è stato il primo settore a fermarsi e come stiamo vedendo sarà l’ultimo a poter ripartire a pieno regime».

Eppure l’Italia ha sempre dimostrato che proprio grazie alla cultura si possono fare grandi cose, si può rialzare la testa. Pensiamo a Milano, che nel dopoguerra inaugurò quasi contemporaneamente La Scala e il Teatro Piccolo. E allo stesso Teatro la Pergola che nei suoi oltre quattro secoli di storia ha superato crisi economiche, guerre, alluvioni, contestazioni, cambi di proprietà e di amministrazioni. «Stiamo parlando di un luogo che rappresenta il concetto stesso di teatro all’italiana», mi racconta Tommaso Sacchi, Presidente della Fondazione Teatro della Toscana e Assessore alla cultura di Firenze, «inteso come riferimento sociale per una comunità. Quel luogo per la nostra città è fondamentale, dove entrano e si incrociano le traiettorie di grandi artisti, interpreti e registi delle varie epoche. Credo che questa pandemia abbia evidenziato quanto una comunità si basi sulla certezza di avere un teatro inteso come luogo di dibattito cittadino. Ecco noi (Sacchi e Accorsi, nda) stiamo progettando un teatro che abbia la forma ideale dell’agorà moderna di una città. La pandemia non ha fatto altro che metterci a nudo, ha mandato in crisi le istituzioni della cultura ma una città senza un teatro aperto, è una città che non parla, che non si esprime». E se da un lato dobbiamo anche ammettere che ci siamo avvicinati di più a certe forme di spettacolo proprio grazie alla contingenze e alle modalità di fruizione digitali, dall’altro «non c’è nessun automatismo per cui questi spettatori passino dalla rete al teatro in sala».

Stefano Accorsi e Tommaso Sacchi. Foto di Massimo Sestini – Courtesy Fondazione Teatro della Toscana

Il teatro della Pergola è stato tante cose: costruito tra il 1652 e il 1656 dall’Accademia degli Immobili (un gruppo di nobili che a Firenze si occupava di coltivare le arti) prese il posto di un tiratoio della lana, dove all’imbrunire i lavoratori potevano godersi il fresco sotto un pergolato d’uva in fondo alla strada, da qui il nome conservatosi fino ad oggi. Inoltre ha attraversato molte vite nei secoli: da luogo esclusivo frequentato dalla nobiltà, a maneggio, sala da ballo, pista da pattinaggio, luogo di bische e incontri di box, cercando di mantenere sempre alto il proprio intento culturale. È passato dalla lirica alla prosa, ha ospitato le opere di Donizetti, Bellini, Rossini e spettacoli memorabili come la prima del Macbeth di Verdi del 1847. È entrato nel ‘900 con Rosmersholm recitato da Eleonora Duse e Edward Gordon Craig, è passato da classici come Strehler all’avanguardia pura di Carmelo Bene, e sotto la direzione artistica di Aladino Toffanelli prima e Alfonso Spadoni dopo è diventato un vero e proprio polo culturale per il Paese. “In sua movenza è fermo” recitava il motto degli Immobili, attuale come non mai. «Il cortometraggio che abbiamo appena presentato all’Arsenale di Venezia durante il Festival del cinema, (a lato della monografia su Ferzan Özpetek per i vent’anni de Le Fate Ignoranti), Chiusi fuori rappresenta proprio la necessità di raccontare questa essenza», racconta Sacchi. «È il frutto di una convergenza tra il regista Giorgio Testi, il pluripremiato attore Colin Firth, e il nostro direttore artistico Stefano Accorsi. Queste tre intelligenze del mondo del cinema e del teatro si sono ritrovate, in un certo senso, per attualizzare una sorta di Aspettando Godot, in cui gli attori leggono, il fascino e l’evoluzione del teatro, nonché l’assenza del teatro stesso durante i prolungati mesi di pandemia».

La Pergola è anche luogo di sperimentazione (dove ad esempio Antonio Meucci creò il primo prototipo del telefono) e di formazione: ha ospitato le scuole di Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo e oggi quella di Pierfrancesco Favino. Inoltre è molto impegnato nell’educazione scolastica, con spettacoli come quello di Elio Germano Così è (o mi pare), una riscrittura per realtà virtuale di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello che si terrà nel Saloncino Paolo Poli tra l’11 e il 21 novembre, e che poi andrà in tour nelle scuole fiorentine. «I bambini hanno fatto veramente fatica a capire quello che è successo: hanno avuto bisogno di socialità, di contatto, di spensieratezza», commenta Accorsi. «Il fatto di non poter accedere a questo tipo di formazione e la mancanza di questi luoghi atti a tramandare il sapere dell’umanità hanno creato un vero e proprio buco di conoscenza . Lo spettacolo è fatto di storie e non è un caso che le storie si raccontino quotidianamente ai bambini: chi le racconta partecipa alla creazione di un ordine e al senso stesso del mondo, di una scala di valori, spiega attraverso l’esempio cosa è giusto e cosa è sbagliato». La distinzione tra cosa sia reale e cosa sia vero, come insegna Pirandello.

Accorsi ha da poco compiuto 50 anni e nel suo Album Stefano Accorsi, racconta gli anni di Bologna, quelli del Maxi Bon, di Jack Frusciante è uscito dal gruppo e dei primi film importanti, fino ad arrivare al teatro al quale è dedicato un capitolo che apre con una citazione dell’Amleto di Shakespeare: «Sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere». Ma cosa si può essere ancora? «Ci sono molti settori della comunicazione che mi affascinano. Quello che non smetterò mai di fare è di mettermi in discussione: lavorare negli aspetti più produttivi della serialità, nella scrittura, nel teatro, mi ha insegnato moltissimo. Ma ancora non ho fatto tutto e mi piace che ci sia del margine. È bello scoprire cose nuove e lavorare in un campo che si allarga e che magari un domani mi farà ritrovare alla regia». E pensare che la parola “regista” fino al 1932 non esisteva neppure nella lingua italiana, e la figura del regista non veniva nemmeno citata prima della diffusione della cartellonista negli anni ’40. Ma tutto cambia, o meglio, “in sua movenza è fermo”.