Attualità

Suburra, Netflix e il nuovo racconto popolare

Suburra, la serie di Netflix su Mafia Capitale, è girata, scritta e recitata meglio della media delle produzioni italiane. Allora perché non piace a tutti?

di Mattia Carzaniga

In poco più di una settimana, Netflix ha sconquassato il mondo della serialità italiana, dico serialità perché lì la parola fiction è vietata. Fino ad ora. Adesso ci si trova Don Matteo e altra roba di produzione Rai, e sui social è venuto giù un pieno: non paghiamo 9,99 euro al mese (a breve la tariffa aumenterà) per vedere Terence Hill in HD! È il grande equivoco di una piattaforma digitale nata a fortissima caratterizzazione social: per molti utenti non dev’essere un network che offre contenuti a una platea sempre più vasta (se no uno il network cosa lo apre a fare), ma un luogo di riconoscibilità individuale, dove ognuno deve trovare ciò che parla solo a lui. Da qui viene anche la frase che ultimamente si sente ripetere più spesso: «Su Netflix non c’è niente». Esaurite in poche sere le due-tre cose che interessano a te, il resto è come se non esistesse. Ma si aprirebbe un discorso troppo lungo. Torniamo alla settimana decisiva di cui sopra.

È appena esplosa la bomba Don Matteo ed ecco che arriva Suburra, la prima serie italiana che Netflix ha proprio deciso di produrre, pensa te. All’ultima Mostra di Venezia, dove sono stati presentati i primi due episodi, si è assistito al primo caso di oggetto non identificato, fatto da cinematografari romani ma pensato per un bacino che si spinge ben oltre Roma Nord: i numeri di Netflix dicono più di 100 milioni di abbonati nel mondo. Faceva un certo effetto ricevere comunicati stampa dove leggevi nomi come Claudia Gerini e Michele Placido da parte di grossi PR internazionali. I giornalisti italiani in cerca dei soliti amici da buffet ci sono rimasti malissimo: e mo come facciamo? Con chi parliamo? La serie è piaciuta. Agli italiani, che sentivano l’attenzione della stampa internazionale, non si può vivere del resto di solo Sorrentino. E pure agli stranieri, che hanno ritrovato nel nuovo prodotto l’unico cinema (e Tv) ultimamente esportato oltre confine: Romanzo criminale, Gomorra e, sì, Sorrentino.

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Ora che Suburra è a disposizione di tutti, a certi critici incrociati alla festa veneziana non piace più (l’open bar gentilmente offerto da Netflix è ormai un lontano ricordo), la stampa storce un po’ il naso, sul pubblico non esistono dati di share, si intuiscono reazioni opposte ma è giusto così, il tempo di guardarla in pochi giorni e poi il solito ritornello: «Su Netflix non c’è niente». Il dato interessante è un altro. Per la sua prima produzione italiana, Netflix ha puntato sul nuovo immaginario che ormai riconosciamo (e in cui ci riconosciamo) anche noialtri: Suburra sembra Romanzo criminale, sì; sembra Gomorra, sì. E grazie al cazzo (scusate). Stavolta Stefano Sollima non figura tra i registi, stava girando il sequel di Sicario di Denis Villeneuve, a sua volta impegnato con quel piccolo film che è Blade Runner 2049: non mi sembra una cattiva promozione per nessuno dei due. Ma è proprio con Sollima, autore principale delle versioni televisive di Romanzo criminale e Gomorra, che è partita questa idea di nuovo racconto popolare, pop e paraculo, locale e globale, con «dramatic instinct and visual verve» (dalla recensione di Screen a Suburra il film). Poi è venuto l’imprescindibile innesto sorrentiniano, nella prima sequenza della serie c’è ovviamente un prete, non ce ne libereremo mai, ma ormai siamo persino disposti ad accettarlo.

Racconto popolare, dicevo. I miei amici di Facebook si lamentano delle didascalie “Roma centro” sopra le inquadrature del cupolone di San Pietro: certo, c’avete ragione, ma forse non sono messe a caso. Né sono messi a caso gli spiegoni di Mafia Capitale for dummies, i siparietti coatti a Ostia Lido per chi Ostia Lido non sa cosa sia, le coincidenze forzate tra ammore e malavita, tra borgatari e vescovi, tra consiglieri comunali e tesorieri vaticani. Non sono un fan né di Suburra né di House of Cards, per dire, ma di quest’ultima siete arrivati alla quinta stagione senza lamentarvi troppo, e dire che era diventato inguardabile già all’inizio della seconda. Vi anticipo: non sto mettendo a confronto Alessandro Borghi con Kevin Spacey. È che siamo così, dolcemente esterofili: quando guardiamo le cose nostre non ci va bene mai, vogliono avere ragione sia quelli che «c’è troppa poca monnezza per essere Roma» sia quelli che «dà una pessima immagine del nostro Paese», (ancora) non va bene Don Matteo ma non va bene manco una cosa girata meglio, scritta meglio, recitata meglio (io vedo un casting semplice semplice come quello dei tre protagonisti Borghi-Ferrara-Valdarnini e mi sembra comunque miracoloso) e che però vuole continuare ad essere popolare, appunto. No: il vostro sogno è passare da Don Matteo a The Wire nel giro di una stagione, anzi mezza, una stagione intera è troppo.

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Poi c’è un altro problema. E cioè che il racconto popolare ce lo scriviamo da soli tutti i giorni da anni, dunque la finzione, seppur verosimile, ci lascia sempre e comunque insoddisfatti. Con un sindaco (pardon: una sindaca) come Virginia Raggi che scrive tutti i giorni sceneggiature degne di un film di Dino Risi, quelle delle serie non saranno mai all’altezza. Lo capisco, succede anche a me. Eravamo l’unico Paese al mondo in cui gli stand-up dell’attualità politica andavano più veloci del loro possibile adattamento cinematografico, meno male che oggi di là è arrivato Trump. Di fronte a Virgy contro l’Atac, per citare giusto uno dei format di maggior successo, nessuno showrunner potrà mai inventare qualcosa di meglio.

 

Foto Suburra – la serie