Presence, un bellissimo horror che non fa paura

Arrivato finalmente nelle sale italiane, il primo esperimento di Steven Soderbergh con il sovrannaturale è tutto girato dalla prospettiva del fantasma, che diventa quella dello spettatore.

28 Luglio 2025

Che il cinema – come luogo fisico e come concetto artistico – non se la passi benissimo non è più una notizia sconvolgente, anzi. Siamo circondati da campanelli d’allarme che suonano sempre più come campane a morto, quanto meno per la visione di un film intesa come vado in sala, mi siedo sulla poltroncina circondato da sconosciuti sperando che non siano di quei spettatori performativi che fanno foto e video allo schermo per poter rovinare l’esperienza del film a chi in sala non c’è ancora andato e forse non ci andrà mai. Una parte consistente della campagna promozionale di un film oggi sta nel mettere al pubblico un’ansia da prestazione tale addosso (via social, via influencer che col cinema non c’entrano niente, via dibattito al bar o sui social) da costringerlo ad andare in sala in modo da levarsi quest’obbligo sociale, superando la Fomo. La disaffezione verso il cinema sta tutta nelle lamentele per film lunghi tre ore a fronte di binge seriali che durano il doppio o il triplo, magari correlate da podcast o dirette streaming di commento o polemica che durano quanto un film e più.

Cosa c’entra tutto questo con Presence di Steven Soderbergh? Fortunatamente pochissimo. Il regista di Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco, Erin Brockovich – Forte come la verità e Magic Mikeè sempre stato il più veloce e il più prolifico a Hollywood. Combinando televisione e cinema è dal 2016 che non fa mancare un suo contributo annuale, regolare come un metronomo nel tirar fuori nuove idee e concretizzarle, iperattivo, ipertrofico. Questa sua proverbiale sveltezza se lo è portata dietro dai fasti dei blockbuster all star d’inizio millennio alle produzioni medio-piccole in cui si muove oggi. 

Per un cortocircuito tipico della distribuzione italiana, abbiamo visto in primavera in sala la sua ultima fatica, il notevole Black Bag e ora, nel pieno dell’estate, Lucky Red porta in sala il suo primo esperimento nel territorio del sovrannaturale, Presence. Difficile scindere i due film, che segnano sia il rinnovarsi della collaborazione con lo sceneggiatore David Koepp (un altro che non si riposa un attimo, ora in sala anche con Jurassic World – La rinascita) sia la voglia di misurarsi con generi nuovi, lontano dalla propria confort zone. 

Una ghost story d’atmosfera

Di fronte a Presence viene da fare il commento che si fa a ogni nuova fatica di Soderbergh: che come regista, produttore e tuttofare del cinema (nel senso più nobile del termine) lo diamo troppo per scontato. Forse non ce lo meritiamo uno che ha lasciato dietro di sé senza rimpianti il mondo dei blockbuster al suo apice che si chiude in una bella casa e gira un horror che è in realtà una ghost story d’atmosfera, svelto ma mai trascurato. Spaventi bisogna aspettarsene pochissimi, o quantomeno non quei jump scare mercenari tipici di un genere prodotto ormai quasi sempre a catena di montaggio, per dare agli affezionati che vanno sempre in sala il brivido cheap che fa sobbalzare un paio di volte, ma non lascia niente. 

Presence è altro. È una storia che flirta con il sovrannaturale per toccare, con poche e rapide considerazioni, il reale sofferto e doloroso di oggi. Così come in Black Bag, al centro della storia c’è un matrimonio innervato di segreti tra due persone profondamente differenti, che stavolta si riflettono nei figli. Il padre e la figlia adolescente protagonista sono aperti nel raccontare le proprie emozioni, sensibili e talvolta feriti dalla moglie e dal fratello, per cui la forma massima d’amore è una protezione incondizionata e spesso non esplicitata, tanto da tenere nascosto anche l’affetto. 

Il POV del fantasma

Il motivo per cui si è parlato molto di Presence però non è la storia, anche se nell’ambiente claustrofobico della casa a due piani dove si svolge l’intero film David Koepp sembra dare il meglio, con un abbozzo di storia essenziale, minimalista ma efficace. A colpire di Presence è l’ennesimo esperimento stilistico del suo regista, che gira l’intero film dalla prospettiva del fantasma, trasformandola in quella dello spettatore. Le facce dei protagonisti, lontane e distorte delle lenti grandangolari utilizzate, le intuiamo più che vederle, così come i non detti che aleggiano nei rapporti familiari.  Suona tanto come un’espediente utilizzato da un ambizioso regista di quelli che A24 fa esordire con alterne fortune. Invece è il gioco di un veterano che su un’idea ormai ampiamente esplorata dal cinema (a partire da The Others e A Ghost Story) innesta una scelta tecnica per esplicitare tantissimo a livello visivo, senza bisogno di metterlo a parole. 

Una riflessione meta-narrativa sul cinema

La prospettiva del fantasma, il suo sguardo sono il cuore emozionale del film. La bravura con cui Soderbergh lo fa muovere con scioltezza per i due piani della grande casa novecentesca dove è intrappolato, la sicurezza con cui sceglie le inquadrature per comunicare i suoi stati emotivi ancor prima di quelli degli umani che spia meriterebbero da soli la visione del film. A ciò si aggiunge che Presence è a sua volta una riflessione meta-narrativa sul cinema, che altro non è se non l’arte dello sguardo. Non di quelle compiaciutissime e urlate allo spettatore con continue rotture della quarta parete e lezioncine insopportabili, ma con la consapevolezza crescente, scena dopo scena, che il fantasma è il cinema stesso, in un certo senso. Il modo in cui la cinepresa si muove determina la nostra reazione emotiva a ciò a cui assistiamo, chi sta dietro alla cinepresa e ne traccia il percorso a sua volta dice tantissimo di sé, che lo voglia o meno. 

Cosa ci dice di sé oggi Soderbergh, il fantasma del grande cinema statunitense di consumo? Probabilmente che non smetterà mai di girare, ma non è così egoista o cieco da non reagire alla lenta agonia del cinema a cui si è dedicato nella seconda parte della sua carriera. Le produzioni a medio budget, che un tempo erano la spina dorsale del box office, stanno scomparendo. Non perché lui e un pugno di volenterosi (sia veterani sia nuove leve) non continuino a farne di grande qualità, ma perché il pubblico ormai va tormentato, perseguitato, incalzato come uno spirito dolente affinché vada in sala. Film come Presence e Black Bag non hanno i fondi per infestare le nostre residenze digitali e reali. Pur sostenuti da un ottimo riscontro critico e da un buon passaparola tra quanti al cinema ancora ci vanno, semplicemente scompaiono nelle nostre vite ancor più frenetiche dei ritmi produttivi di Soderbergh. Ci lamentiamo dell’ondata di remake, del ricatto delle operazioni nostalgia che titillano i bei ricordi d’infanzia, della pochezza e bruttezza di tante serie che vediamo perché l’algoritmo della piattaforma streaming o dei social ci fanno sentire esclusi se non partecipiamo al dibattito lampo sul finale di Squid Game, salvo poi scoprire che non ci ricordiamo niente della serie con cui eravamo ossessionati qualche estate fa. 

Il cinema è insomma sempre più un fantasma nelle nostre vite, ma grazie a film come Presence risulta più vivo dei suoi spettatori, cronicamente incapaci di essere curiosi, proattivi, di provare la voglia di andarsi a cercare qualcosa di nuovo e bello. 

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