Attualità | Polemiche

Cosa dicono le statue?

E a chi servono? In linea generale a chi le costruisce. Una riflessione a partire dal caso Montanelli.

di Davide Coppo

La statua di Montanelli ai giardini di Porta Venezia ricoperta di vernice rosa durante il corteo dell'8 marzo

L’uomo che si è meritato la statua più alta del mondo, che si trova in India ed è alta 240 metri contando anche il piedistallo, si chiama Sardar Vallabhbhai Jhaverbhai Patel e non è mai stato il primo ministro indiano, ma al massimo il primo vice-primo ministro. È considerato un eroe dell’indipendenza e, alla morte di Gandhi, fu l’avversario sconfitto di Jawaharlal Nehru, più laico e meno conservatore. Anche per questo Patel è, in particolare, un eroe del Partito del popolo di Narendra Modi, attuale Primo ministro dell’India. La statua è stata terminata a fine 2018 ed è costata, sembra, 350 milioni di euro.

Tra poco, tuttavia, la statua di Sardar Patel diventerà soltanto la seconda più alta del mondo: è in fase di costruzione un monumento ancora più colossale e sempre in India, dedicato però a Shivaji, un maragià morto nel 1680 che si batté a lungo contro l’impero Mogul musulmano ed è, da molti, considerato un altro eroe nazionale. Leggendo le cronache della statua di Indro Montanelli colorata di rosa e subito dopo ripulita, da milanese, mi sono come prima cosa chiesto dove si trovasse, nei giardini di Porta Venezia, quella statua di Indro Montanelli. Sulla scissione nel ricordo di Montanelli – bravo giornalista con idee spesso discutibili e un bagaglio fascista, razzista e sessista – si è già scritto abbondantemente e la questione, a trattarla sempre come fosse un gioco della torre, naturalmente annoia. Si potrebbe, ho sperato, utilizzare la protesta della vernice rosa come leva per indagare il rimosso del colonialismo italiano, ma ho paura che si perderà anche questa occasione, come accade da decenni a questa parte. E quindi mi sono rimesso a pensare alla statua in quanto statua.

Le statue servono, in linea generale, a chi le costruisce: negli stessi anni dell’inaugurazione del monumento a Indro Montanelli le giunte di centrodestra milanesi decisero di lasciare una firma politica anche nella nomenclatura di due storici luoghi pubblici della città: i giardini di Palestro o di Porta Venezia, rinominati i primi come il giornalista poi diventato monumento, e il parco Solari, diventato parco Don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, movimento cattolico con tentacoli molto lunghi e forti nel mondo della politica milanese. Erano i primi anni del nuovo millennio, le amministrazioni quelle guidate da Gabriele Albertini e Letizia Moratti. Forse ci vorranno diverse generazioni per cambiare le memorie e le abitudini, ma per i milanesi quei parchi si chiamano ancora Porta Venezia e Solari. Sulla statua di Indro Montanelli chino a battere a macchina, invece, scrisse il giorno dell’inaugurazione Francesco Merlo su La Repubblica che «ci sono vandali che distruggono e vandali che costruiscono», chiamando il monumento un «montanelloide in bronzo color oro».

Un particolare della statua di Sardar Vallabhbhai Pate nello Stato indiano del Gujarat (SAM PANTHAKY/AFP/Getty Images)

Dalla fine delle due grandi guerre novecentesche le statue celebrative, monumentali, sono passate fortunatamente di moda. Si pensò, giustamente, che non fosse più tempo di commemorare gli eroi né i singoli, di mettere uomini sopra altri uomini, di costruire moniti con nomi e cognomi. Le raffigurazioni umane si fecero più rare oppure più astratte – come quelle di Henry Moore – e i monumenti pubblici dedicati alla perdita e al ricordo anziché alla celebrazione e alla vittoria: il Memoriale della pace di Hiroshima di Kenzo Tange, il Memoriale dei veterani del Vietnam di Maya Lin, il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Peter Eisenman. Le persone tramutate in statue, decennio dopo decennio, finalmente diventavano la minoranza, anzi si procedeva a rimuovere quelle criminali e si discuteva (e si discute) di quelle divisive: succede con Franco in Spagna, con Rhodes in Sudafrica e Inghilterra, con i combattenti degli Stati confederati negli Stati Uniti.

In Italia abbiamo fatto i compiti peggio degli altri, come capita spesso: non c’entra l’architettura razionalista né il ricordo di Terragni, ma pessime idee come quella di costruire nel 2012 un sacrario al criminale nazi-fascista Rodolfo Graziani, o la nostra testardaggine nel voler utilizzare i morti per firmare il presente, e chiamare quindi le piazze e le vie con il nome di questo o quel politico per intestarsene la memoria, anziché abbandonare una volta per tutte la toponomastica fatta di nomi e cognomi – una toponomastica fatta di militari, medaglie d’argento e medaglie d’oro che non scaldano il cuore a nessuno, anzi – e seguire esempi più aggraziati come quello berlinese, in cui la via più importante si chiama semplicemente “Sotto i tigli”.

Le statue oggi sono in larga parte roba kitsch da calciatori – come lo sbeffeggiato busto di Cristiano Ronaldo a Madeira – o da truffatori di massa – il riprodottissimo Padre Pio – o da fenomeni trash-televisivi – l’orribile Manuela Arcuri a Porto Cesareo, in Puglia. Le costruiscono ancora volentieri, come visto, in India ma anche in Cina, in Ucraina e in Russia e in Turchia, che non rappresentano le democrazie più mature a cui guardare e da cui farsi ispirare. Quelle celebrative e più piccole sono ancora più goffe perché mosse dalla buona fede: fa ridere quella di Sciascia a Racalmuto, fa lo stesso effetto quella di Montanelli a Milano. A che pro: per celebrare il giornalista, lo scrittore? Eppure quello si può fare mettendoci impegno, idee, fatica, su quello si può aprire un dibattito pubblico per arrivare a una memoria condivisa e pacificata, riconoscendo meriti e demeriti, anziché continuare a dividere in buoni e cattivi, si può divulgare l’opera per mantenerla viva, si possono fare centinaia di cose che non siano il facile compito di una commissione scultorea. L’effetto, così, è quello di ridurre la complessità dell’esperienza di un uomo che ha attraversato luci e ombre dell’ultimo secolo a un pezzo di bronzo. Poco più che una marionetta, che coperta di rosa avrebbe svolto una funzione un po’ più profonda e sincera.