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Star Wars vuole accontentare tutti

L'ennesimo sviluppo della saga iniziata nel 1977 ha la freddezza della matematica e rinuncia ancora una volta alla possibilità di sorprendere.

di Giuseppe Giordano

Adam Driver è Kylo Ren in Star Wars: The Rise of Skywalker

Star Wars: The Rise of Skywalker è un film giusto, ma non quello di cui il cinema aveva bisogno. È l’unico film possibile in grado di accontentare tutti: le nuove generazioni, gli appassionati di vecchia data, i capi della Disney e il reparto marketing della compagnia. Ma l’ultimo capitolo del ciclo narrativo degli Skywalker non è capace di dividere, di far discutere, di aggiungere qualcosa al canone di un franchise gigantesco. J.J. Abrams è riuscito a stare in equilibrio tra esigenze molto diverse. Proprio per questo è arrivato alla fine di un processo produttivo che ha visto molti dei suoi colleghi essere sostituiti in corsa. Allo stesso tempo, consegna alle sale un’opera che ha la freddezza della matematica, la soluzione a un problema complesso in cui ognuno trova il passaggio che lo accontenti. Il tutto a discapito di quella misteriosa qualità (che forse si genera proprio da uno squilibrio, da una rottura) che consente a un film di restare nella memoria degli spettatori per anni.

Un esempio potrebbe essere la gestione dei personaggi. Chewbacca, Han, Leia, i nuovi protagonisti: tutti sono troppo importanti, ognuno scalpita per avere il proprio spazio sullo schermo. Abrams non può lasciare da parte nessuno, quindi accelera il ritmo del film, allineando una scena madre dietro l’altra. A volte ci sono delle pause tra i passaggi fondamentali, ma sono troppo brevi o inutili, soprattutto se confrontate con il ritmo di una sceneggiatura che ha solo picchi. Restano pochi i momenti in cui allo spettatore è dato di riprendere fiato. Un aspetto micidiale in combinazione con i numerosi deja-vù. Ormai Star Wars non è soltanto quel caratteristico mix tra fantasy e fantascienza in cui alcuni concetti della controcultura degli anni Sessanta si sono fusi con un’esplosione di creatività anarchica e al limite del kitsch. Da quando Disney ha rilevato la licenza, i capitoli della saga aderiscono a una formula che i creativi della casa di Topolino hanno distillato dai primi episodi, e riproposto con solo qualche variazione sul tema.

Anche in The Rise of Skywalker, quindi, ci sono sequenze la cui presenza sembra obbligatoria, ad esempio una battaglia spaziale mentre in parallelo si svolge uno scontro a terra. Abrams non rinuncia a mistiche apparizioni, duelli con la spada laser, conflitti interiori incardinati sulla contrapposizione tra lato chiaro e lato oscuro della Forza. Non mancano missioni di infiltrazione nelle navi nemiche, pianeti desertici e semi-primitivi, tramonti con due soli. Chiaramente si sta evocando un immaginario potentissimo, quindi è lecito che alcune idee siano riproposte a oltranza. Ma qui tutto sembra già visto, e proprio per questo spunta lo spettro del fan-service. Un fantasma che Rian Johnson ha esorcizzato in un’intervista di poco precedente all’uscita italiana di Episodio IX.

Accontentare i fan, invece che sfidarli è un “errore”, ha detto il regista di The Last Jedi a Radio.com. L’ottavo capitolo non è piaciuto alla fanbase, che lo ha bombardato di recensioni negative su Rotten Tomatoes, allargando di quasi cinquanta punti la forbice tra giudizio del pubblico e della critica. Agli appassionati non sono andati a genio l’umorismo demenziale, colpevole di spezzare la “gravitas” dei film originali, i Porg e alcune scelte narrative. I recensori hanno invece apprezzato il coraggio di rompere con il passato. Con tutto quel parlare di nuovo corso e nuove generazioni, The Last Jedi restituiva il franchise al suo pubblico di riferimento: i giovani under 18 che non sono cresciuti con il mito di Luke Skywalker.

L’operazione Abrams va quindi letta anche in reazione a un precedente strappo, che secondo alcuni avrebbe portato agli incassi deludenti di Solo, il primo film della saga ad aver perso denaro. Con Episodio VII, Abrams ha girato un remake non dichiarato di A New Hope. A sua discolpa, nel 2015, l’hype, e quindi l’attenzione dei fan sull’uscita di un nuovo Star Wars, erano altissimi. Attenuanti che adesso sono venute meno, considerando che il passo in una nuova direzione era già stato fatto. The Rise of Skywalker dà quindi il senso ultimo della gestione Disney, in fin dei conti un atto di imbalsamazione e conservazione. Sperimentare con nuovi linguaggi sembra essere possibile solo nei progetti paralleli, come in quell’incredibile mash up tra Lucas e Sergio Leone che è la serie tv The Mandalorian.

È questo che ci riserva il futuro? Film girati con il bilancino per risuonare con ogni sensibilità, sia essa di un bambino o di un adulto cinquantenne? Al termine di un arco narrativo cominciato nel 1977, i segnali di un cambiamento non sono incoraggianti. Qualcosa si capirà nel 2021, allo scadere del contratto di Kathleen Kennedy, la 66enne a capo della Lucasfilm. Kennedy è stata nominata da Lucas. Non è improbabile che, nei prossimi anni, il Ceo della Disney Bob Iger voglia sparigliare e mettere in quello stesso posto un uomo di sua fiducia. D’altra parte, Kennedy si è fatta ricordare per il suo stile poco incline ai compromessi. Nel giugno 2017, ha licenziato Phil Lord e Chris Miller durante la produzione del prequel Solo. Lo stesso è successo nel settembre 2017 con Colin Trevorrow (sostituito da Abrams) e nel 2016 con Gareth Edwards, alle prese con lo spin-off Rogue One. Tra gli ultimi grandi nomi prima fatti salire sul carro e poi allontanati, ci sono quelli dei produttori di Game of Thrones: David Benioff e D.W. Weiss. I rumors confermano quel che i fatti rendono chiaro: nonostante l’iniziale promessa di controllo creativo, Disney non è ben disposta nei confronti delle nuove idee, né delle contrattazioni. Non si sa se all’orizzonte c’è una nuova trilogia. Kennedy suggerisce di no, Iger afferma che l’ipotesi non è del tutto esclusa. Più probabile che vedremo un nuovo film nel 2022. Sarà la volta buona per un vero rinnovamento? Chissà. Come si dice per le banche, sembra che Star Wars sia troppo grande per fallire. Ma, proprio per questo, anche per cambiare.