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Sound of metal sembra parlare di noi, anche se non è vero

Il protagonista del film candidato all'Oscar e interpretato da Riz Ahmed, vive nell’attesa di qualcosa che verrà. Una situazione molto simile alla nostra.

di Francesco Gerardi

Una scena da Sound of metal, su Amazon prime

Dopo un anno di pandemia, tutto sembra parlare di un anno di pandemia, anche un film girato in 24 giorni non consecutivi tra la primavera, l’estate e l’autunno del 2018. Sound of metal comincia anche prima, in realtà: sono tredici anni che Derek Cianfrance (che qui è solo sceneggiatore, la regia è affidata a Darius Marder) cerca gli attori giusti per interpretare i protagonisti di una storia che all’inizio si chiamava Metalhead. A luglio del 2018 sul set ci arrivano Riz Ahmed e Olivia Cooke, lui farà Ruben Stone e lei Lou Berger. Il film ora si chiama Sound of metal ed è la storia del batterista di una band metal che perde improvvisamente l’udito e deve imparare come essere sordo, cioè imparare a comunicare, e quindi a vivere da capo. Dopo un anno di pandemia, tutto sembra parlare di un anno di pandemia: Ruben si ritrova isolato e disorientato, la vita che aveva vissuto fino a quel momento non è più una possibilità, quella che dovrebbe vivere è una sconfitta.

La vita di Ruben era una cosa piccola che stava tutta dentro un camper un po’ casa, un po’ mezzo di trasporto, un po’ sala prove. Una cosa piccola che, come tutte le cose piccole, era bella da curare: la soddisfazione stava nello smoothie salutare e disgustoso preparato a colazione, negli esercizi mattutini per tenersi in forma, nel lucidare ossessivamente gli strumenti, nel ballare un vecchio disco assieme alla sua compagna di vita e di musica, Lou. E poi il suono del metallo una volta calato il sole, il rumore che riverbera nei muscoli di un corpo teso ed eccitato, le pupille che si dilatano e trasformano gli occhi in buchi neri che assorbono il rumore. Ruben vive nell’attesa di quello che prima o poi verrà (il tour, l’album) ma nel frattempo è contento di tenere la sua vita lì dove è e lì come è: dentro un camper, sulla strada, dietro la doppia cassa, accanto a Lou. Ruben ha già cambiato troppe volte: da piccolo i continui traslochi di sua madre infermiera dell’esercito, da ragazzino la tossicodipendenza, da giovane uomo la disintossicazione. Ora finalmente sta fermo, pur vibrando sempre dell’incertezza delle cose in equilibrio e perciò instabili.

Avessi visto Sound of metal al cinema e non su Amazon Prime, mi sarebbe sembrato un film diverso e probabilmente non mi sarebbe nemmeno piaciuto: c’è tutti gli anni l’indie d’autore pensato per l’approvazione dell’Academy (e infatti ha 6 nomination), erede della tradizione del basso budget e del poco tempo, come Dallas Buyers Club, Whiplash, Brooklyn, Moonlight, Manchester by the sea, Ladybird e Tre manifesti a Ebbing, Missouri. C’è sempre un’interpretazione straordinaria come quella di Riz Ahmed, che si capiva sarebbe arrivato dov’è arrivato già da quello splendore di The Night of. E però quest’anno ero da solo, nel silenzio, a fissare uno schermo piccolo, ostinato a vivere l’imitazione modesta di quello che dovrebbe essere, consapevole di quanto si possa desiderare una cosa mediocre adesso solo perché somiglia a quel che c’era prima.

Sullo schermo grande la vita di Ruben non mi sarebbe sembrata così piccola e la sua perdita non mi sarebbe parsa così assoluta. Uno vive convinto che la vita va avanti finché non scopre che in realtà tutto è uno sforzo per tenerla dov’è, dove crediamo di averla messa, dove abbiamo deciso che ci piace: è l’unica certezza che ho aggiunto nell’anno appena trascorso. Sound of metal è la dimostrazione del fatto che da premesse sbagliate vengono conclusioni sbagliate: dal momento in cui Ruben scopre che la sua vita è ormai un’altra, tutta la sua energia è impiegata nello sforzo di farla rimanere la stessa.

Sound of metal è un film che parla del confine, costruito per metà da una parte e per metà dall’altra di un limite. La regia alterna la narrazione in prima e in terza persona spostandosi di qua e di là: di qua ci siamo noi e la familiarità del rumore, di là c’è Ruben con l’assenza del suono prima e la mostrificazione dello stesso poi. Soprattutto, Sound of metal è raccontato spostandosi da una parte e dall’altra di una domanda che riverbera in tutto il film e si diffonde in un mondo, il nostro, che di questa domanda ha ormai deciso la rimozione: qual è il senso del sacrificio? Ruben cede la sua vecchia vita rotta per averne in cambio una uguale ma intatta, ritrovandosi però tra le mani un’imitazione distorta e beffarda: l’amore della sua vita ora ha un taglio di capelli diverso, vestiti migliori, canta in una lingua che lui non capirebbe anche se gli impianti cocleari funzionassero davvero. Dopo un anno passato ad alternarci tra l’illusione di un mondo nuovo (che non verrà) e la nostalgia di quello vecchio (che non tornerà), Sound of metal è un film persino odioso da guardare perché riscopre una consapevolezza sepolta sotto la terra dura dei lutti e delle emergenze: cosa speriamo ci sia restituito dopo aver sacrificato tutto quello che ci restava?