Cultura

Perché Soul vuole piacere agli adulti?

Il film Disney-Pixar è l'ultimo lampante esempio della trasformazione vissuta dall'animazione occidentale negli ultimi venti anni: un tempo pensata per l'infanzia, oggi dominata da una generazione che parla di sé a sé stessa.

di Francesco Gerardi

Soul, nuovo film della premiata ditta Disney-Pixar, è la storia della vita, della morte e dei miracoli di Joe Gardner. La vita (e la morte) di Joe sta tutta nella frase «non ti abbiamo fatto studiare perché tu diventassi un uomo di mezza età che si fa lavare la biancheria da sua madre», biografia efficace e spietata come solo mammà può permettersi di fare. Joe vive per la musica, sogna il jazz da quella volta che suo padre lo portò con sé una sera: un pianista ispirato ispirò il piccolo Joe, da quel giorno convinto che la musica non sia solo cosa da fare ma ragione per vivere. Ma i sogni di rock ‘n’ roll (jazz, nella fattispecie) sono una morbida scia/una striscia invitante, talmente accogliente/da perderci il fiato e che sia quel che sia. Il sogno di Joe resta inaccessibile, protetto dal filo spinato dei “no, grazie” e dei “cerchiamo altro”, e nel frattempo la cara, vecchia, noiosa vita va avanti tra lavori part-time come professore di musica alla scuola media, avanti-e-indietro in metropolitana, fette di pepperoni pizza e pecan pie, un concerto ogni tanto per continuare a seguire la morbida scia. “Regular old living”, come lo chiama lui, che è una cosa diversa da vivere con uno scopo.

Soul è un film d’animazione ed è un film per adulti. Che sia anche un film adulto è materia di discussione: tutta la matassa narrativa viene alla fine dipanata con un trucchetto da buoni sentimenti che tiene contenti tutti (grandi e piccini, si diceva un tempo) ma tradisce la premessa da arte che imita la vita che il film stesso si dà in principio. Ma a prescindere da questo, resta il fatto che Soul è un film d’animazione ed è un film per adulti: quanti, facciamo dai trent’anni in su, si ritroveranno nell’ostinazione, nelle illusioni, nelle frustrazioni di Joe Gardner, che alla mezza età ancora insegue i sogni di un ragazzino, che voleva fare il jazz ma che ormai ha l’età in cui bisogna cominciare a preoccuparsi dell’assicurazione sanitaria, dei contributi pensionistici, dei vestiti che un tempo erano giusti e ora stanno stretti? Quanti sono ancora lì che aspettano quella telefonata, quel provino, quella chance che segnerà l’inizio della vita con uno scopo e la fine del “regular, old living”?

Soul è l’opera-simbolo di una generazione accomodata nelle lamentele di marginalità ed esclusione, incapace di riconoscere la prepotenza e l’invadenza con le quali ha occupato l’immaginario collettivo

Soul è un bel film, vedetelo, ci sono modi peggiori di passare un’ora e quaranta minuti di una giornata in zona arancione o rossa. Soul però è soprattutto il film-manifesto di una generazione che parla di sé a sé stessa, l’opera-simbolo di un segmento demografico accomodato nelle lamentele di marginalità ed esclusione, incapace di riconoscere la prepotenza e l’invadenza con le quali ha occupato l’immaginario collettivo. Non c’è angolo nel regno della cultura pop che sia sopravvissuto alla furia conquistatrice del Patto d’Acciaio tra Generazione Y e Generazione X: 18-49 o 35-64 sono key demographic sia dalla parte della domanda che da quella dell’offerta, i non-più-giovani-ma-non-ancora-adulti e gli ormai-adulti-ma-col-fanciullo-interiore-ancora-vispo sono sia produttori che consumatori.

Siamo alla fine del decennio dei supereroi al cinema, trasposizioni su grande schermo di personaggi inventati 50, 60, 70, 80 anni fa pensando agli spiccioli nelle tasche di bambini e ragazzini. Siamo nell’era del reboot e del revival, della citazione e della nostalgia, degli universi espansi e condivisi, architetture dell’immaginazione costruite per contenere l’ossessione per un passato nel quale la felicità era a portata di paghetta. Siamo nell’epoca degli uomini di mezza età che riflettono su vita e morte, sul successo e sull’auto-realizzazione, dentro film nati per far vedere ai bambini un topolino che attraversa un fiume a bordo del suo vaporetto. Da Mickey Mouse a Joe Gardner, da Steambot Willie a The Great Beyond, dall’inizio alla fine dell’animazione occidentale per come l’abbiamo conosciuta.

Non che ci sia niente di male in adulti che parlano di cose da adulti con strumenti tradizionalmente intesi (anche, soprattutto) per i bambini. Tutto scorre, però, quindi c’è un che di inquietante nell’osservare adulti che non riescono a rinunciare alle forme e agli spazi dell’infanzia, agli usi e consumi della gioventù. E viene spontaneo solidarizzare con i ragazzini che vedono spesso i genitori occupare ogni spazio dell’immaginario collettivo, che sentono mamma e papà sproloquiare sulla superficialità di una gioventù ossessionata da TikTok e Twitch dall’alto dei loro simposi sulle somiglianze tra il Codice Jedi e la filosofia Sith, che sottolineano il cattivo gusto di certo abbigliamento da trapper ma non provano imbarazzo a mostrarsi in pubblico con la t-shirt dei Vendicatori.

Soul è probabilmente una cosa troppo piccola per stare in mezzo a un discorso così ampio, eppure è evidentemente il risultato di una trasformazione della cultura pop che va avanti dall’inizio degli anni 2000 almeno: è il primo film d’animazione di un grande studio occidentale pensato esclusivamente per gli adulti. Per temi, per estetica, per umorismo, non riesco a immaginare un solo motivo per cui un ragazzino dovrebbe interessarsi a questo film. Joe Gardner parla a me e di me, la morale che si trae alla fine del film è comprensibile solo per chi è adulto adesso: ricordati che c’è una differenza tra missione, passione e ossessione. Non rimanere incastrato nell’attesa del fase successiva come succede a 22, la co-protagonista del film, l’anima che si rifiuta di diventare persona e di cominciare la sua vita sulla Terra. Che poi Soul sia parte della soluzione o del problema è da decidere, è attraversato da un’autocoscienza che potrebbe essere tanto risultato di analisi deduttive quanto una di quelle intuizioni improvvise che vengono quando una situazione è andata troppo oltre, quando un’epoca si avvicina alla fine. È un film il cui protagonista accusa la madre di non essergli stata accanto nella sua rincorsa al sogno del jazz, la stessa madre il cui lavoro paga l’acqua e l’elettricità necessarie a fare il bucato del suddetto protagonista. Ma è anche un film in cui a un certo punto i Jerry, le entità che curano le anime prima che queste arrivino sulla Terra, ammettono che dovrebbero smetterla di crearne così tante egocentriche.

Egoisti ed egocentrici come nessun’altra generazione prima, Gen-Xers e Millennials si sono presi anche i giocattoli dei bambini. Pupazzi, modellini, giornaletti, cartoni animati: tutto ormai è pensato anche e soprattutto per chi ha dai trent’anni in su, reddito sufficiente, tempo libero, hobby. Se c’è una differenza (oltre al sistema pensionistico) tra baby boomers e quelli che sono venuti dopo è che i baby boomers sono stati i primi ad avere un’infanzia intesa come la intendiamo oggi e gli ultimi che un certo punto diventavano adulti senza voglia, tempo e modo di dedicarsi alle cose dei bambini. Mi ricordo i lunghi giri in tondo al centro commerciale che mio padre (classe 1950) mi faceva fare sperando che nel frattempo mi dimenticassi dell’ennesimo pupazzo col quale mi ero fissato, e non posso che affiancare questo ricordo alla consapevolezza che se avessi un figlio un pupazzo in più per lui sarebbe una action figure in meno per me.

Mi ricordo la noia paziente dei miei genitori alla visione del film Disney del momento e non posso che confrontarla con la lista dei film d’animazione che vorrei vedere con mio figlio: Gli Incredibili, Alla ricerca di Nemo, WALL-E, Up, Coco, Inside Out, Soul, tutti con il principale pregio di avermi fatto sentire un adulto mentre facevo una cosa fino a quel momento considerata esclusiva dei bambini. Penso a quanto sarei felice io genitore e a quanto si annoierebbe lui figlio, rifletto sui ruoli che si invertono e sull’ironia della sorte. Mi viene in mente Ruth Graham che su Slate scrive del suo sdegno per i trenta/quarantenni che fanno un terzo dei lettori di romanzi young adult, di A.O. Scott che sul New York Times le dà ragione e fa l’elegia funebre dell’età adulta. Ma non è che il lutto dovremmo riservarlo all’infanzia? A parte la saga di Harry Potter, pensate a quanti e quali altre opere per bambini e ragazzini sono entrate a fare parte del canone della cultura pop dal 2000 in poi. Ora pensate a quanto immaginario collettivo del 2020 sia fondato su e dedicato alla nostalgia di chi era bambino e ragazzino nella seconda metà del ‘900.

La cultura pop esiste perché esistono l’infanzia e l’adolescenza, la fanno i bambini e i ragazzini. Chi altro ha il tempo e le energie per trasformare una passione in ossessione, d’altronde? Chi altro ha la forza e la voglia di elevare un prodotto a opera, di insistere e insistere finché un banale passatempo non diventa parte dell’immaginario collettivo? George Lucas aveva 33 anni quando creò la saga cinematografica che avrebbe (ri)definito il concetto stesso di pop culture, rimescolando le passioni della sua infanzia (pistoleri e samurai) in modo da renderle appetibili per l’infanzia altrui. Se avesse immaginato Guerre Stellari per i trentatreenni invece che per i tredicenni, probabilmente oggi nessuno di noi avrebbe idea di cosa diavolo significhi “che la Forza sia con te”. Ma la storia di Lucas, della sua saga e del suo pubblico ci raccontano sia l’inizio che la fine della cultura pop: gli stessi che l’hanno fatta ieri la stanno distruggendo oggi. Quando Lucas decise di proseguire la storia della famiglia Skywalker e di ricominciare a parlare col suo pubblico, diede per scontato di avere a che fare con adulti fatti e finiti, pronti a scoprire, capire, amare il bambino traumatizzato e insicuro, il giovane uomo schiacciato da desideri, aspettative e responsabilità che si celava dietro la maschera di Darth Vader. Fu un disastro e Lucas divenne per milioni di persone “l’uomo che ha distrutto la mia infanzia”, il centro di un’ossessione che lo vedeva anche nella parte dell’uomo che l’infanzia di tanti l’aveva fatta, il tizio che prima aveva dimostrato quanto fosse bello essere piccoli e che poi si era azzardato a dirci che piccoli non eravamo più. Con l’inconsapevolezza che è gran parte del genio di un’artista, Lucas ci urlò in faccia una verità che Soul cerca di sussurrarci all’orecchio accarezzandoci la testa: siete grandi, ormai. Forse, all’epoca non eravamo pronti ad ammettere che Anakin Skywalker eravamo noi. Forse, oggi siamo pronti ad ammettere che Joe Gardner parla di noi, a noi. Forse siamo cresciuti davvero. Forse l’infanzia è finita.