Cultura | Libri

L’arte di scrivere un libro senza usare le parole

Nati nell'Ottocento, i silent book sono un'altra forma di narrativa: basati sull'immagine e privi di parola scritta, hanno contribuito a cambiare le storie per l'infanzia e l'adolescenza e ampliato il concetto stesso di oggetto-libro.

di Simone di Biasio

In una delle “scene” del libro Flutti di David Wiesner il giovane protagonista è in vacanza al mare con genitori e amici e ha portato con sé alcuni attrezzi del mestiere: giochi tipici da spiaggia, ma anche una lente d’ingrandimento, un binocolo e, chiuso ermeticamente in un sacchetto di plastica, un microscopio. Sembra sia lì per vedere quello che è lontano dalla portata dell’occhio: sia ciò che è estremamente lontano che ciò che è vicino, ma infinitamente piccolo. Nel suo saggio Figure il graphic designer Riccardo Falcinelli conclude la sua esplorazione con un riferimento che è anche un viaggio nel futuro prossimo: nel giugno 2017 alla Harvard Medical School sono riusciti ad archiviare un’immagine in una cellula, hanno salvato il codice di una foto digitale nel genoma di un vivente, in un batterio, partendo dall’idea che immagini e Dna hanno in comune un insieme di informazioni: «Per secoli le immagini sono state artifici esterni al nostro corpo. Di creta o di marmo, di pittura o di pellicola, il loro statuto è sempre stato quello di apparire vive e coinvolgenti pur essendo fatte di materia inanimata. Ora stiamo entrando in una nuova epoca, quella della riproducibilità biologica». Impressionante, ma possibile.

Flutti (Flotsam) di Wiesner, pubblicato in Italia da Orecchio Acerbo, è un libro di sole immagini. In Germania sono chiamati Wimmelbücher: “libri affollati”, “libri brulicanti”. In Korea, Geul upnun grimchack, vale a dire “libri illustrati senza testo”. In un contesto culturale distante da quello occidentale questa definizione è molto più vicina alla definizione anglosassone di wordless book, o anche di silent narrative. Fino ad approdare al francese album sans parole, e all’italiano silent book. Il termine, nel nostro Paese, è stato “adottato” da studiose come Marcella Terrusi e Giovanna Zoboli: la traduzione parla, dunque, di “libri silenziosi”, o “silenti”, ma la selva di definizioni di questa particolare tecnica narrativa ci porta dentro un mondo di difficile inquadramento, eppure oggi di grande circolazione. Come si legge un silent book? E cos’è un silent book? Chi legge questo particolare genere di libri, qual è il pubblico di riferimento? Perché l’oggetto in questione – e di “oggetto libro”, in effetti, si tratta – è spesso trascurato negli studi di letteratura tout court, mentre trova maggiore spazio in discipline come l’arte e la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, inscritte in una cornice più pedagogica.

Le origini del silent book si perdono nella notte dei tempi. Potremmo considerare suoi antenati le prime “immagini” raffigurate nelle grotte di Lascaux. La colonna Traiana a Roma che racconta senza parole la conquista della Dacia di Traiano. Le storie di Gioacchino e Anna, Maria e Cristo, la Pentecoste, il giudizio Universale nella cappella degli Scrovegni di Padova, dipinte da Giotto. Ma non siamo ancora al libro. Come ricostruisce anche il saggio di Terrusi Meraviglie mute, quello che è considerato il primo wordlessbook del mondo anglosassone viene distribuito in una chiesa nel 1866 da padre Charles Haddon Spurgeon per evangelizzare i più giovani: è composto da tre fogli colorati, uno giallo a simboleggiare la luce di Dio, uno bianco a richiamare la purezza del Figlio e un altro rosso per il sangue di Cristo che lava i peccati.

È evidente che lo sviluppo di questo tipo particolare di libri corre di pari passo con altre innovazioni artistiche, come la fotografia e il cinema, in particolare il cinema muto muto. È proprio negli anni Venti del Novecento che fiorisce anche il “romanzo per immagini” con artisti d’avanguardia come Frans Masereel, che disegnava storie senza parole sin dal 1918, Rockwell Kent (Wilderness, 1919), Lynd Ward, autore di “romanzi a incisione” (a novel in woodcut, reca il sottotitolo) nel 1929 dal titolo God’s man, Otto Nückel (Destin, 1930). Non sono libri destinati ai ragazzi, perlomeno non esplicitamente: il primo wordlessbook pensato per bambini è di Ruth Carroll, che disegna una storia di sole immagini con protagonista un fanciullo e un fox terrier. Il successo dell’opera non arriva subito ma quando viene ristampata negli Usa nel 1965, inaugurando una nuova stagione per questi libri visuali.

Una svolta che viene impressa anche dall’Italia e che nel nostro Paese trova terreno fertile grazie all’avventura editoriale pionieristica di Rosellina Archinto, che nel 1963 fonda la Emme edizioni. Grazie a lei vengono lanciati sul mercato internazionale artisti italiani di primissimo piano, tra i quali Enzo e Iela Mari, interpreti di una nuova stagione per il silent book e per l’attenzione all’infanzia in generale (Ellen Key definì il Novecento “il secolo del bambino”), Emanuele Luzzati e, soprattutto, Bruno Munari, che già nel 1949 aveva progettato i suoi “libri illeggibili”, composti di soli fogli colorati di diversi tagli. Sono anni in cui si impongono nel settore artisti del calibro di Warja Honegger-Lavater, Katsumi Komagata, Kveta Pakovska, fino a Herve Tullet, Shaun Tan e David Wiesner, illustratori che mettono in discussione la nostra idea di “libro”, dell’infanzia e dell’adolescenza.

Wiesner è uno dei maestri indiscussi del silent book. Vincitore di ben tre Caldecott Medal – il maggiore riconoscimento americano per un illustratore – l’artista ha recentemente viaggiato in Europa per un tour di presentazione dei suoi lavori ed è stato ospite, in Italia, all’ultima edizione del Festival Tuttestorie di Cagliari. Qui ha presentato anche il suo ultimo lavoro, Sector 7, uscito negli Usa nel 1999 ma edito in Italia a ottobre sempre dalla casa editrice Orecchio acerbo. In Sector 7 il giovane protagonista vive una strana avventura nella “fabbrica delle nuvole”: fa amicizia con una nube all’ultimo piano dell’Empire State Building di Manhattan che lo conduce in una sorta di stazione ferroviaria dei cieli. È qui che le nuvole ricevono istruzioni sulle forme da assumere e sulla destinazione verso cui dirigersi. Ma la fantasia del protagonista, dell’autore, metterà disordine nell’ordinarietà del quotidiano, lanciando nei cieli strani “oggetti” degni della più onirica pareidolia.

Wiesner oggi ha 67 anni ed esprime la sua gratitudine nei confronti dei lettori con una grande generosità. «Io scrivo con le immagini»: potremmo fermarci qui, a come esordisce nel suo discorso sul suo lavoro. Ma usa nella sua lingua un termine che, come per la definizione di silent book, non trova un esatto corrispettivo in italiano. Wiesner parla di wordlessness, in inglese nome composto da wordless, senza parole, e ness. Certo, noi potremmo tradurlo con “mancanza di parole”, ma manca la parola – è il caso di dirlo – che unisca in un colpo solo ciò di cui proviamo a parlare: forse Gianni Rodari l’avrebbe chiamata “senzaparolità”, per rifarci alla sua “Fantastica”, alla sua Grammatica della Fantasia. Sono molte le domande che si vorrebbero rivolgere a un autore come Wiesner per esplorare più a fondo l’operazione letteraria di fronte cui ci troviamo. Accade spesso, ad esempio, che un libro “tradizionale”, una storia scritta, diventi un film, un graphic novel, e spesso ne giudichiamo gli esiti in termini di fedeltà. Ma cosa succede al contrario, quando una storia per immagini diventa un testo? «Succede sempre!», spiega l’illustratore americano, «I miei libri vengono utilizzati nelle scuole per i compiti di scrittura creativa. Lo fanno in primaria, persino nelle scuole superiori. I libri senza parole ispirano insegnanti e studenti a raccontare o ampliare la storia con le parole. Naturalmente, le scuole si concentrano principalmente sul linguaggio, quindi non sorprende che la scrittura sia la scelta principale. Le classi più giovani spesso includono alcune immagini. Ma non credo di aver mai ricevuto una versione senza parole, raccontata o nuova, di una delle mie storie. Sono sempre scritte. Ne ho una pila».

«All’inizio della mia carriera», racconta ancora Wiesner, «ho creato un dipinto per un manifesto di una delle prime mostre di libri illustrati negli Stati Uniti (The Original Art, iniziata nel 1979, è una mostra annuale che continua tuttora). L’immagine che ho creato non si basava su nessun altro materiale, era un’immagine tutta mia. È stata una delle cose che mi ha convinto a smettere di illustrare per altri e a iniziare a scrivere i miei libri! Alcuni anni dopo quella mostra, una nota autrice mi chiese se poteva scrivere un romanzo basato sull’immagine che avevo creato per il poster. Mi piaceva il suo lavoro e pensavo fosse una grande idea. Alla fine il libro era solo un buon libro, non il suo lavoro migliore. Ho ricreato l’immagine del poster per la copertina del libro e non era neanche lontanamente paragonabile all’originale. Ho fatto anche diverse immagini per l’interno del libro, ma non è il mio lavoro migliore». Sempre nell’incontro pubblico a Cagliari Wiesner aveva svelato quali fossero alcune delle sue ispirazioni: tra queste, Stanley Kubrick. Ma ci sono scrittori tout court che un illustratore come lui ama allo stesso modo? «Io visualizzo tutto ciò che leggo. La poesia si presta a una maggiore libertà di visualizzare in modo personale, credo, perché il linguaggio è spesso così scarno e suggestivo da lasciare spazio alla mente per riempire l’immaginario. Tutti visualizzano in qualche misura ciò che leggono, ma credo che se si chiedesse loro, per esempio, che aspetto ha il protagonista di un libro, la risposta sarebbe piuttosto vaga. So che “vedo” più chiaramente l’ambiente di una storia che i personaggi. La fantascienza per prima mi ha catturato, scrittori come Arthur Clarke e Isaac Asimov. Ma sono stati i libri di Ray Bradbury e poi di Kurt Vonnegut a conquistarmi davvero, c’era più, diciamo, personalità nella loro scrittura. Bradbury, in particolare, era così visivo per me. Riuscivo a vedere chiaramente le persone e i luoghi di cui scriveva, in un modo molto cinematografico: illuminazione, composizione, movimento. Le città invisibili di Italo Calvino è un altro libro straordinariamente visivo. Credo che molti artisti lo citino come uno dei loro preferiti. È travolgente nella sua descrizione. In genere trovo che troppe descrizioni siano noiose nella maggior parte dei libri. Una piccola quantità, ben scelta, può dire molto di più. Ma Le città invisibili si colloca così all’altro estremo dello spettro che ci si perde dentro, magnificamente».

Forse l’esempio più incredibile dell’arte di Wiesner è in un libro che, al contrario, non è senza parole, sebbene ne contenga, come nel caso dei picturebook, in minima quantità. Si tratta de I tre porcellini, ma non è la fiaba cui siamo abituati dai tempi di James Orchard Halliwell-Phillipps che per la prima volta la “scrisse” nel 1843 (più giusto sarebbe dire: la raccolse, attingendo dalle narrazioni popolari). L’artista americano sconvolge non solo la storia ma la narrazione tutta, giocando con le possibilità offerte dallo spazio della pagina: l’opera gli è valsa la Caldecott Medal nel 2002 (in Italia viene pubblicata solo nel 2020 da Orecchio Acerbo). I tre animali escono, infatti, letteralmente dalla vicenda per creare un’opera meta-narrativa con cui attraversare ambientazioni e generi, stili e varianti, ma anche e soprattutto idee: la concezione che abbiamo, ancora una volta, di un libro, di una storia, del pubblico cui è destinata. E ci chiama tutti a raccolta, di nuovo, ad ascoltare e a vedere una storia che pensavamo di conoscere, e invece sbagliavamo, come sempre.