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Elogio della plastilina

È uscito al cinema Shawn The Sheep, dagli autori di Wallace & Gromit - La maledizione del coniglio mannaro. Un'occasione per tessere le lodi dello stop-motion. Anche perché certi attori in carne e ossa hanno meno espressioni dei pupazzetti.

16 Febbraio 2015

Studio n.22 è uscito in edicola e su iPad. Pubblichiamo qui uno dei dispacci, dedicato allo stop-motion in occasione dell’uscita del film d’animazione Shaun the Sheep, nelle sale italiane dal 12 febbraio.

Back to basics, a una tecnica nata per errore. Georges Méliès stava filmando il traffico parigino, la pellicola si inceppò negli ingranaggi della macchina da presa, servì un po’ di tempo per disincagliarla e riprendere a girare. Proiettata sullo schermo, la pellicola mostrò un pionieristico effetto speciale: il tram a cavalli al centro della scena si era trasformato in un carro funebre. Forte del suo passato da illusionista, Méliès – celebrato nel film di Martin Scorsese Hugo Cabret, dalla graphic novel di Brian Selznick, La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, uscita in Italia con Mondadori – sfruttò l’incidente per fare apparire e sparire i diavoletti nel suoViaggio sulla luna.

Fu la prima scintilla dell’animazione a passo uno. Disegni, silhouettes, pupazzi, burattini, fiammiferi – perfino coleotteri, nei filmini del russo Ladislaw Starevich – venivano inquadrati un fotogramma alla volta, modificati di pochissimo per il fotogramma successivo, e via di gran pazienza, fino a creare l’illusione del movimento (ventiquattro fotogrammi al secondo per un secondo di film, sedici ai tempi del muto: ecco perché viste oggi le comiche paiono epilettiche).

La tecnica resiste. L’ha usata Wes Anderson per Fantastic Mr Fox, l’aveva usata, oramai un decennio fa, Tim Burton per The Nightmare Before Christmas, l’ha usata la premiata ditta britannica Aardman per Pirati! Briganti da strapazzo e per il recentissimo Shaun the Sheep (nelle sale italiane dal 12 febbraio, distribuito da Koch Media). Sono in stop-motion i video amatoriali con i mattoncini e i personaggi Lego reperibili su YouTube, mentre The Lego Movie, diretto da Phil Lord e Chris Miller, imita l’animazione a passo uno usando il computer. Realismo, in questo caso, significa restituire l’effetto “mattoncino” e la ridotta mobilità dei bambolini.

Nonostante la Pixar, uno zoccolo duro di spettatori ancora resiste al cinema di animazione. Nonostante la sequenza finale di Pirati! (un meraviglioso catalogo del pop all’epoca della regina Vittoria, da Jack lo Squartatore all’Uomo Elefante), la plastilina animata ancora fa storcere il naso. Anche i fan di Wes Anderson hanno avuto uno sbandamento davanti alla famiglia di volpacchiotti. Lui con addosso il completo di velluto che il regista indossa nelle fotografie, lei con abitini a fiori cuciti amorevolmente: la stoffa era stoffa, i bottoni erano bottoni, il giornale era di carta. Sono piaceri che l’animazione computerizzata, per quanto perfetta e raffinata nel rendere la trasparenza dell’acqua e la pelliccia dei mostri, non consente.

Shaun the Sheep è uno spin off della serie creata da Nick Park Wallace e Gromit: l’inventore ghiotto di formaggio e il suo cane li abbiamo rivisti nel film La maledizione del coniglio mannaro, premio Oscar nel 2006 per l’animazione. Alla fattoria – “Mossy Bottom” è l’indicazione stradale, il cartello opposto dice “Big City” – il contadino è orbo e la pecorella Shaun se ne approfitta per trascinare il gregge in avventure demenziali, con la complicità involontaria del cane da pastore Bitzer. Gambette a stanga di plastilina, un ciuffo lanoso, gli occhi a palla: bastano, assieme al gusto per i dettagli e per la comicità slapstick, a creare un personaggio divertente, tenero, irresistibile (certi attori in carne e ossa hanno meno espressioni).

Cogliamo l’occasione per rendere omaggio a un fantastico cortometraggio italiano, girato in stop motion da Edo Natoli. Secchi – abbreviazione di “secchioni” – dura dodici spassosi minuti: i pupazzi si muovono in una scuola e in camerette così affollate di minuscoli oggetti che viene la tentazione di fermare l’immagine per non perdersi nulla.

Dal numero 22 di Studio

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