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C’era una volta un certo tipo di cinema

Frutto di oltre dieci anni di lavoro, Che hai fatto in tutti questi anni è il libro in cui Piero Negri Scaglione analizza la genesi del «più americano dei film italiani».

di Giuliano Malatesta

Per parlare di C’era una Volta in America bisognerebbe sempre partire dalla scena finale, da quel beffardo e inatteso sorriso di Noodles che ci ha sempre lasciati, dopo quattro impeccabili ore dove tutto – le luci, il trucco, i costumi, la musica – è di una perfezione quasi esasperante, con un gigantesco dubbio. Era davvero tutto un sogno? Era un viaggio onirico costellato di allucinazioni oppiacee? Era «un sogno costruito dentro un altro sogno», come arrivò a ribattezzarlo Martin Scorsese, oppure un viaggio nostalgico sull’epopea e il mito del cinema americano, naturalmente raccontato con la spensieratezza di giudizio e la sfrontatezza di un forestiero? In fondo non è poi cosi importante avere una risposta e ci si può serenamente affidare a quella che Sergio Leone diede ad un giornalista nel 1984 al Festival di Cannes, durante la conferenza stampa di presentazione del film: «Tu la pensi in un modo, un altro la può pensare in un altro modo. Ognuno pensa quello che cazzo gli pare». Quel che invece appare evidente, dopo appena mezz’ora di film, non appena le note di Deborah’s theme di Ennio Morricone invadono la stanza dove un anziano Robert De Niro, appena tornato nel Lower east Side dopo trentacinque anni, è intento a riannodare i fili della sua vita osservando vecchie foto attaccate alle pareti, è lo straordinario livello qualitativo del film.

«Altro che gangster movie. C’era una volta in America è un’opera mondo, un’epica moderna, o postmoderna, l’unica possibile», scrive Piero Negri Scaglione, che ha appena dato alle stampe per Einaudi Che hai fatto in tutti questi anni, con il titolo che fa il verso alla battuta più celebre del film. Un libro frutto di oltre dieci anni di lavoro – il tempo, inteso in senso lineare ma anche circolare, è il trait d’union di tutta questa storia – e che racconta passo dopo passo, come fosse una serie televisiva, l’avventurosa storia del film simbolo del regista romano che impiegò ben 18 anni, dal momento in cui fu pensato per la prima volta, per portare a termine «il più americano dei film italiani». Tra incontri mancati, colpi di scena, sceneggiatori arroganti, improbabili produttori, alcuni erano addirittura ex cavallari che in pieno fervore da pellicola sognavano di svoltare facendo ‘er film’, piccole grandi ossessioni e meravigliosi racconti cinematografari. Al punto che il sottotitolo del film, disse una volta Leone, sarebbe potuto essere “C’era una volta un certo tipo di cinema”.

Ispirato al libro Mano Armata, di Harry Grey (in realtà si chiamava Herschel Goldberg), gangster ebreo di piccolo cabotaggio che per un periodo aveva lavorato anche per Frank Costello, prima di finire a Sing Sing a scrivere le sue memorie, fin dall’inizio l’idea base del film fu quella di trasformare una storia criminale che nasce e muore nella New York del Proibizionismo in una sorta di epopea dell’America perduta, “mito e contraddizione”. Per farlo Sergio Leone nel 1972 provò a coinvolgere nella scrittura del progetto anche Leonardo Sciascia. Si incontrarono a Palermo, al Grand Hotel Villa Igiea, l’autore di Il Giorno della Civetta portò con se il suo amico Vincenzo Consolo, ma alla fine quella bozza di contratto che era stata preparata – sei milioni più il diritto di utilizzare “il trattamento per l’elaborazione di un racconto”– non venne mai firmata. No, grazie, non mi interessa, dirà lo scrittore di Racalmuto mettendo la parola fine, ricorda Piero Negri Scaglione, al sogno di una vita, quello di lavorare per il cinema. 

Costantemente alla ricerca del nome di grido Leone proverà anche con lo scrittore del momento, Norman Mailer, che aveva appena pubblicato The Fight, racconto del mitico incontro a Khinshasa tra Ali e Foreman. La scelta, sfortunatamente, si rivelerà disastrosa. «Sí, ho letto la sceneggiatura di Norman Mailer. Era pessima, con delle trovate da film horror», dirà in seguito Enrico Medioli, storico sceneggiatore di Visconti, chiamato da Leone a far parte di un dream team di sceneggiatori italiani che comprendeva tra gli altri il duo Benvenuti e De Bernardi, principi della commedia all’italiana. 

Nel giugno 82, al teatro della Cometa di Roma, dopo rocambolesche peripezie e infinitivi tentativi cominciano le riprese. Il copione ha sforato le trecento pagine, nessuno, neanche il regista, sa realmente quanto il film potrebbe durare. «Namo dentro, va’», dice Leone alla sua maniera, dando il via a dieci lunghi mesi di riprese – con un budget che ha oramai raggiunto i 30 milioni – che lo porteranno non solo negli Stati Uniti ma anche in giro per l’Europa per ricostruire le atmosfere di quell’America perduta: la scena con Deborah che parte dalla Grand Central Station di New York è stata girata alla Gare du Nord di Parigi, quella della romantica cena con Noodles nel ristorante deserto all’Excelsior di Venezia. «Nella mente di Leone il film va costruito, non semplicemente ripreso», scrive l’autore del libro, «perfino le cartoline nell’ufficio del mercante di diamanti devono essere quelle vere degli anni Trenta, acquistate dall’architetto Carlo Simi nei mercatini dell’usato». Che sia stata una straordinaria avventura lo dimostra Robert De Niro, che al termine delle faticose riprese regala a tutta la troupe una piastrina metallica di tipo militare con la scritta: CONGRATULATIONS! You’ve survived Once Upon a Time in America. 

Il seguito è noto. L’accoglienza americana fu disastrosa, il primo test screening a Boston nel febbraio del 1984 andò talmente male che alla fine i produttori si convinsero della necessità di montare per il pubblico a stelle e strisce una versione più corta e sopratutto più semplice, sviluppata solo in ordine cronologico. «Mi sento come una bella signora palpata sul tram da un vecchio sporcaccione», commenterà i tagli Leone. Successivamente, con il passare degli anni, il film superò le diffidenze iniziali – nel ’92 uscirà anche negli Stati Uniti la versione originale – conquistandosi meritoriamente la fama di uno dei grandi film della storia del cinema. 

Nel 2012, intervenendo a Cannes alla presentazione della versione restaurata del film, che aggiungeva 25 minuti di scene eliminate nel primo montaggio realizzato dal regista, Robert De Niro disse solo una frase: «Sergio non voleva finirlo il film, sarebbe andato avanti ancora, forse per sempre». Probabilmente l’inventore degli “Spaghetti-western” era almeno in parte consapevole che quello sarebbe stato l’ultimo suo grande lavoro. D’altronde ci sono film, ha raccontato uno degli sceneggiatori, Kim Arcalli, a Piero Negri Scaglione, che costano la vita del regista. «Anche Visconti si è ammalato fatalmente di Ludwig Leone di C’era una volta in America».