Cultura | Letteratura

Le donne selvagge del romanzo giapponese

Una nuova generazione di scrittrici sta cambiando il mondo letterario nipponico, raccontando storie di donne artistiche, autarchiche e fuori dalla norma.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Nella lugubre serata dell’Obon, le festa degli antenati, un uomo disoccupato fa entrare in casa controvoglia due rappresentanti di lanterne. Le donne sembrano in grado di manipolare la sua mente, spingendolo a preparare un tè senza accorgersene, rivelare dettagli imbarazzanti della sua vita e acquistare contro la propria volontà delle futili lanterne. È uno dei primi racconti del libro Nel paese delle donne selvagge – una raccolta edita da e/o per la traduzione di Gianluca Coci – dove gli spiriti femminili della tradizione giapponese si ripresentano sotto forma di venditrici spregiudicate, babysitter per madri single, alberi arcistufi di allattare neonati, zie tornate dall’oltretomba per liberare le nipoti dalla retorica dell’amore romantico e dalla schiavitù della depilazione.

La rivisitazione delle leggende di un Giappone mistico quanto maschilista non si limitano a prendere in giro i mariti smidollati o violenti, i ruoli tradizionali e i criteri estetici dominanti. Il libro, pur cavalcandolo, riesce a irridere il concetto intero di tradizione, presentando gli spiriti della leggenda come volgari impiegatucci di aziende dell’aldilà, ancora devoti ai concetti mortali di marketing e straordinari, che, col chai latte in mano, rivolgono un freddo cenno di saluto al fantasma del coniuge sposato in vita. La critica femminista di Matsudo Aoko si allarga così alla stessa società della produttività e dei consumi, che – assorbito il concetto di parità di genere al punto da trasformarlo in un altro prodotto – diventa qui la cornice dove si incontrano i fantasmi dei diversi racconti, tutti presi a esercitare la loro energia sovrannaturale in tornei interaziendali o nella vendita di incenso per gli altari: viene ridicolizzato così l’aspetto commerciale dei culti, ma anche l’esotico indugiare in antiche usanze, che è alla base del successo commerciale della cultura giapponese all’estero.

In Italia, è in corso la più grande ondata di nippofilia letteraria dopo quella degli anni Novanta: e/o, Neri Pozza, Marsilio e Sellerio hanno decine di titoli in catalogo, Rizzoli ha da poco inaugurato la collana dedicata Kimochi. Noi lettori svezzati a Banana Yoshimoto e Murakami andiamo ancora pazzi quando leggiamo daikon, shoji e pachinko in lingua originale, e qualche scrittrice scaltra offre perfino corsi online a pagamento sulle festività giapponesi, tra cui l’Hinamatsuri, la festa delle bambine, che oggi però appare più retriva del vituperato otto marzo, con gli espositori di bambole allestiti in casa per allontanare la sfortuna dalle figlie femmine, secondo un’idea non di emancipazione, ma di protezione (una variante kawaii – carina – del non uscire in minigonna). È da questo retroterra tradizionale, affascinante e superato, che partono le scrittrici contemporanee giapponesi, aderendo alla quarta ondata femminista con un bagaglio culturale più esplosivo di noi nipotine delle varie Simone (Beauvoir e Weil).

Mieko Kawakami, moglie di scrittore figo e genialoide in un matrimonio che definisce una “guerra”,  è l’autrice di Seni e uova, un tomo di successo mondiale dove la protagonista tenta per quattrocento pagine di riprodursi senza l’aiuto di un maschio. Kawakami dichiara di volersi liberare nella sua narrativa del cliché letterario “dello strano, del carino e del misterioso” e denuncia alla stampa americana che le donne giapponesi non possono acquistare liberamente pillole contraccettive in farmacia, e molte si riferiscono ancora al proprio marito usando il nomignolo affettuoso di shujin: padrone. L’odio per il sesso che, assieme alle difficoltà legali della fecondazione in vitro, spinge la protagonista di Seni e uova a rivolgersi al mercato nero del seme, è un elemento che ritorna anche nelle protagoniste asociali dei romanzi di Sakaya Murata. Ne I terrestri, una donna che ha avuto solo due rapporti sessuali all’età di dieci anni (uno consenziente e incestuoso col cuginetto, e uno stupro subito dal maestro del doposcuola) rinuncia per sempre alla vita coniugale, lasciando la casa natale grazie a un matrimonio fittizio con un uomo asessuato conosciuto online, il quale, come lei, crede di essere un alieno abbandonato da piccolo sulla Terra.

Nel precedente libro di Murata, La ragazza del convenience store, il fastidio per i ruoli prestabiliti non si riduce a un’espressione narrativa delle teorie di genere, ma abbraccia l’intero percorso di socializzazione della giovane protagonista che, incapace di conformarsi alle aspettative sociali, si mimetizza dietro la cassa di un konbini, un mini-market dove ogni interazione è codificata, ed è sufficiente rispettare le regole alla lettera per essere considerati membri funzionanti di un sistema che incoraggia una piattezza esistenziale. Gli adolescenti, maltrattati dai genitori, abusati dai tutori e bullizzati atrocemente dai coetanei, sono protagonisti ricorrenti dei romanzi di queste autrici, perché parafulmini perfetti di un femminismo intersezionale che si nutre non solo di rabbia di genere, ma anche di rabbia sociale, legata al ceto o alla diversità. È questa l’età – dice Kawakami – in cui ci si scopre mortali; è anche l’età in cui la società esercita la maggior parte delle pressioni al conformismo, il nemico numero uno (molto prima degli uomini) delle autrici giapponesi contemporanee.

La protagonista di Heaven, sempre della Kawakami, è innamorata del compagno di classe strabico perché la sua bruttezza offende i criteri di accettabilità della vita liceale, e lei stessa, per ribellarsi alla famiglia, decide di non lavarsi mai più, di farsi crescere i peli in faccia, e gira con un paio di forbicine tagliando tende, locandine e capelli altrui. Kawakami cresce con una mamma single, a 14 anni lavora in una fabbrica di ventilatori, e nei suoi libri dimostra una grande familiarità col mondo delle hostess nei club per soli uomini. Il suo romanzo più famoso si apre affermando che la povertà di una persona si può capire contando le finestre che aveva in casa da bambina. Pochi anni dopo la fabbrica e prima del successo, Kawakami passa per una fase da blogger, dove le sue prime storie sono libere di fluire in rete, «bypassando un’industria dominata dagli uomini». Diversi anni più tardi, ormai ricca, celebre e bella, la scrittrice intervista Murakami in televisione dopo l’endorsement di lui, e non ha paura di chiedergli conto della «mera funzione sessuale dei suoi personaggi femminili».

Questa generazione di nuove scrittrici ha poco e niente a che vedere con la moda letteraria giapponese importata in Italia trent’anni fa, avendo molti più debiti con i romanzi dell’io degli anni Sessanta e Settanta, e con autrici inquiete come Yuko Tsushima, che da un Giappone chiuso e cerimonioso, poteva solo vibrare degli echi lontani della seconda ondata femminista occidentale, attraverso romanzi di autodeterminazione come Territory of light, tornato attuale negli Stati Uniti negli ultimi anni: una donna divorziata cerca di ricostruirsi la vita con la figlia di tre anni in un piccolo appartamento luminoso, lottando con il giudizio severo della madre e della scuola materna, l’inconcludenza dell’ex-marito, le difficoltà sul lavoro, i folli capricci della figlia e il desiderio di essere di nuovo amata da un uomo. La protagonista finisce per lasciare la bambina sola di notte per andare a consumare la sua vitalità nei bar sotto casa, e poi per affidarla sempre più a lungo a una famiglia con cui la piccola sembra felice. È chiaramente la stessa donna di un altro libro di Tsushima, Il figlio della fortuna, appena riedito da Safarà: Koko, separata con una figlia undicenne che la disapprova, ripudiata dalla famiglia e stigmatizzata per il suo mestiere artistico, è in tutto e per tutto una donna che non aderisce alla norma, e la cui autarchia culmina in una stupefacente gravidanza isterica.

Questi due romanzi femminili hanno in comune con quelli odierni una totale disattesa del gusto “turistico” degli occidentali per il Giappone delle divinità volpine. E se Matsudo e Murata utilizzano le esche degli yokai o il gusto del manga, non lo fanno per sfruttare la cultura popolare, ma per catapultarci in mondi fantastici che rifiutano le regole del rigido patriarcato giapponese: pianeti dove il sesso non è tra gli obblighi morali di un individuo funzionante; paradisi dove non serve essere in due per procreare; dove i mariti ubriaconi sono solo vecchi colleghi di cui si ricorda a malapena il nome; e una donna annegata in un fiume dal marito può risorgere per diventare amante della donna che l’ha ripescata dai flutti.