Cultura | Dal numero

Salmo prima del Flop

Mentre il suo nuovo album, al contrario del nome, è ancora in testa alle classifiche, pubblichiamo una conversazione fra Alessandro Borghi, curatore del numero 45, e il rapper sardo, in cui si parla delle sue origini, di ossessioni e passioni, del rapporto coi fan e con il mondo della musica.

di Alessandro Borghi

Alessandro Borghi: Allora fratello mio, partiamo con un grande ringraziamento perché so che hai sempre un sacco di cose da fare e il tempo che ci dedichi è una cosa bellissima. La prima domanda che ti faccio è: se pensi al posto da dove vieni, alle tue origini, qual è la prima immagine che ti viene in mente?

Salmo: Esattamente quella che ho davanti agli occhi in questo istante, cioè il mare.

Che è il mare della Sardegna. Posto da cui tu ti sei mosso tardi.
A 27 anni.

Quanto pensi che sarebbe stata diversa la tua vita se fossi nato in un altro luogo?
Completamente diversa. Se fossi nato e cresciuto tipo a Milano – poi questo non lo puoi mai sapere – magari avrei fatto comunque qualcosa in questo campo ma l’avrei fatto in maniera diversa, probabilmente. Sai, il fatto di essere cresciuto in questo posto rimanendo isolato, senza le strutture, senza uno sbocco, ovviamente mi ha dato la forza di fare di più. Quando hai molte cose a portata di mano, spesso è paradossalmente più difficile realizzarti. Quando non le hai invece ci vuoi arrivare a tutti i costi. Il fatto che qua non ci fosse un cazzo mi ha aiutato parecchio. Mi sono trovato in un posto dove io da ragazzino la primissima cosa che ho fatto è stata la musica rap, a 14 anni, e nessuno faceva rap qua, nessuno lo ascoltava, eravamo in cinque, cinque ragazzini vestiti larghi. Olbia è la città più punk rock che esista in Italia, quindi immaginati, eravamo proprio degli outsider, completamente. Era tutto contro, capito? Sia il posto che il genere di musica dominante.

E c’è stato un momento dove hai percepito un cambiamento oppure per viverlo a pieno sei dovuto andare via da lì?
Quando sono andato via era ancora tutto come prima. Quando sono rientrato, lì è cambiato tutto: non c’erano più le band, le persone mollavano le chitarre e iniziavano a fare i dj, qualcuno ha iniziato a fare il rap. Però dopo un po’ di anni.

A me capita spesso di immaginare il profilo di chi guarda le cose che faccio. Tu ti sei creato un’idea delle persone alle quali cerchi di parlare attraverso la tua musica?
Provo a farmi un’idea, certo, ma a volte è parecchio negativa, nel senso che mi accorgo che faccio fatica a farmi capire, anche perché comunque il mio genere è ascoltato tanto da persone molto giovani e io invece cerco di scrivere per quelli della mia età. Cerco di non pensarci troppo, non è che quando scrivo una canzone dico: “Ok, questa magari non la capiscono”, la scrivo e basta. Poi certo, il messaggio arriva anche alle persone molto giovani, e lì mi dico che a volte dovrei anche stare più attento a quello che scrivo. Però ti posso assicurare che non mi metto mai nessun paletto.

Fotografie di Roberto Graziano Moro

A proposito di questo: quanto senti la responsabilità di essere un comunicatore? Ognuno di noi, per fortuna o nostro malgrado, lo è; tu sei seguito da due milioni e mezzo di persone, io molte meno ma comunque tantissime. Ti sei mai chiesto se ancora valga
davvero la pena battersi pubblicamente per qualcosa in un momento dove tutto quello che dici è esposto a un giudizio universale permanente, su ogni piattaforma?
Sì, ne vale sempre la pena. E la responsabilità la sento parecchio. A volte, anche se come ti ho detto prima non mi metto dei paletti, mi manca la libertà di poter dire veramente il cazzo che mi pare. Il problema è che la gente, soprattutto ai rapper, addossa questa croce del dover per forza mandare un messaggio positivo. Invece è una stronzata: quando scrivi una canzone non devi fare retorica, non devi dire alle persone cosa fare. Devi raccontare la tua storia, e se qualcuno ha una storia simile alla tua, allora lì si crea la magia. Perché questo succeda devo poter essere libero di dirti che sono un coglione, che faccio delle cazzate. Poi decidi tu se ti piaccio o meno.

È un tema che viviamo anche nel cinema, dove ad esempio è partito tutto un dibattito rispetto alle nuove regole da seguire per essere ammessi agli Oscar. Se io sono forzato da un certo tipo di vincoli a raccontare delle storie che siano, da tutti i punti di vista, delle storie giuste, qualsiasi cosa voglia dire, va a finire che non ti racconto più una storia mia, anche brutta, anche sbagliata, ma che può creare un certo tipo di empatia. Esattamente quello che dicevi tu.
I paletti certo, assolutamente. Beh, guarda, se ti può sembrare interessante, questa cosa nella musica c’è molto meno rispetto a prima. Prendi il mio caso: adesso lavoro con la Sony, e loro mi dicono: “Scrivi quello che ti pare”. Non mi dicono che cosa devo fare, come mi devo comportare, quello che devo scrivere. Mi lasciano carta bianca, nella musica ora c’è un sacco di libertà.

Pensi che loro non ti abbiano messo dei paletti perché fanno così sempre o soltanto perché tu sei Salmo?
Penso non sia solo una questione di essere Salmo, vedo che anche gli altri artisti hanno più libertà. Questa è una cosa buona.

Direi proprio di sì. Una domanda che avrei voluto qualcuno avesse fatto a me, da innamorato come sono di chiunque sappia fare qualcosa bene e si applichi per farla sempre meglio: secondo te, il talento, di qualsiasi tipo, da solo basta? E poi, un dubbio che mi manda fuori di testa: è meglio averlo nel saper fare qualcosa, oppure nel saper gestire tutto quello che comporta saper fare quella cosa?
Attualmente il talento, parlo per la musica ovvia
mente, agli occhi delle persone, non è neanche più
così tanto importante secondo me. Vedo un sacco
di gente che magari non ha un talento particolare, e
riesce con altri mezzi ad arrivare al successo ugualmente. Mi sembra conti molto l’immagine, la musica spesso diventa un contorno e passa in secondo
piano. Credo derivi da questa ondata di youtuber,
di gente che sta su Instagram. È come se fossero un
mix di tante cose che nel passato erano separate:
tutti i personaggi che vengono fuori sono intrattenitori, sono speaker radiofonici, sono presentatori,
sono musicisti, sono tante cose. Mi capita di vedere
un sacco di artisti musicali, anche tanti rapper, di cui conosco facce e modi di dire ma non le canzoni. Questo mi fa pensare: “Allora il talento dov’è? E soprattutto nel fare cosa?”. Forse nell’intrattenimento, ma il mio è un genere in cui, quando ero ragazzino, era fondamentale essere considerati bravi tecni- camente. Non so, a volte è anche figo vedere riuscire delle persone che non sono bravissime. Forse allora il talento non è solo tecnica, ma vuol dire ormai altro?

Beh, sì. Io penso di cavarmela a fare il mio lavoro, ma penso anche che se non fossi stato in grado di gestire tutto quello che ne consegue e cioè la lettura e la scelta dei progetti, il saper chiedere un consiglio alle persone giuste, sopportare la pressione mediatica e via dicendo, non so se ci sarei riuscito. Allora probabilmente, mi chiedo, uno può anche essere l’attore più bravo di questo pianeta, ma poi se non sei in grado di gestire tutta quella roba là…
La consapevolezza! Forse stiamo parlando della consapevolezza del talento, no?

Forse sì
E della gestione del talento.

Gestione e consapevolezza. Non è soltanto “ti faccio vedere quanto sono bravo a fare quello che so fare” ma è anche “cerco di gestire tutto questo nel miglior modo possibile”. Senti, io ho un grandissimo problema con la parola giudizio: mi fa schifo, credo che dal suo abuso dipendano gran parte dei problemi che abbiamo in questo momento. Il fatto di riconoscere in qualcun altro qualcosa di diverso, definirlo e spesso condannarlo per questo motivo. Qual è il tuo rapporto col giudizio? E soprattutto quanto è cambiato negli anni? Il mio tantissimo: prima non riuscivo a sopportare che qualcuno potesse esprimere un dissenso in maniera forte nei miei confronti, adesso do a tutto questo un’importanza relativa e tendo a ricordarmi molto di più le cose belle che quelle brutte.
Il problema è che quando sei molto esposto generi anche odio, e scateni appunto i cosiddetti hater. Io ogni giorno ho nei Dm di Instagram qualcuno che mi minaccia di morte. E ti posso assicurare che molto spesso mi guasta la giornata, inizio a riflettere su odio e frustrazione. Però anche per me sta cambiando, prima mi dava molto più fastidio. Anche il fatto di avvicinarmi al cinema, cercare di recitare, è una cosa che in questo momento mi sta aiutando parecchio: ho iniziato a capire che se vuoi stare davanti a una telecamera, se vuoi recitare, devi eliminare innanzitutto il giudizio che hai su te stesso, il giudizio che hai sugli altri e il giudizio che hanno gli altri su di te, credo.

Te l’ho detto, il cinema è come fare psicanalisi gratis amico mio, vedrai!
Sì, me l’avevi detto, “vedrai che ti aprirà la capoccia”, ed è quello che sta succedendo.

Dopo torniamo un secondo a parlare di questa cosa, di te e del cinema, però prima vorrei chiederti di dirci qualcosa in più di Lebowski 360°: cos’è, perché nasce, qual è secondo te la funzione vera di una cosa del genere.
Lebowski 360° è l’evoluzione delle vecchie etichette disco- grafiche. Più che fare scouting di rapper o simili, sto cercando di formare una squadra di addetti ai lavori completa, anche in professioni che solitamente stanno dietro le quinte: grafici, videomaker, produttori. Ma anche tour-manager, le figure che stanno più vicino agli artisti, una professione non molto conosciuta al pubblico. Magari ci sono tante persone che sarebbero in grado di fare quel lavoro ma non sanno neanche cosa sia. Stiamo cercando di fare una sorta di X-Men di professionisti e addetti ai lavori in pratica.

Mi sembra una cosa molto figa. Senti, in tutto quello che stai facendo, hai un obiettivo?
Agli obiettivi veri che mi ero prefissato intraprendendo questa carriera ci sono quasi arrivato, credo. Sì, certo, potrei dirti che ora il prossimo obiettivo è il concerto a San Siro, il mostro finale. Però ora sono nella fase in cui mi sento a posto e sto cercando di aiutare le altre persone. Poi tutto cambia, dipende: adesso ho in testa il cinema per esempio e ovviamente voglio farlo bene. Però il tema è il voler affrontare questo viaggio, non tanto la destinazione.

«Il fatto di essere cresciuto in questo posto rimanendo isolato, senza le strutture, senza uno sbocco, ovviamente mi ha dato la forza di fare di più. Quando hai molte cose a portata di mano, spesso è paradossalmente più difficile realizzarti»

Guarda che l’idea di focalizzarsi sul viaggio piuttosto che su un obiettivo finale è la vera chiave del mio lavoro. Concentrarsi sul percorso, sulla grande necessità di raccontare una storia a prescindere, per me è fondamentale. Ora tutti noi stiamo facendo questo mestiere senza sapere cosa uscirà al cinema, quando uscirà, se il film a cui lavoriamo verrà comprato. Se uno si fermasse a questo non avrebbe alcun senso farlo, invece…
E i tempi sono lunghissimi in confronto al mio mondo. Porti un obiettivo e poi aspettare così tanto, da andarci fuori di testa.

Invece a un certo punto vedrai che sarà bellissimo entrare in una cosa e poi salutarla, mollarla, e riscoprirla più avanti attraverso gli occhi degli altri. Prossima domanda: quanto sei cattivo con te stesso?
Molto. A un certo punto inizio a odiare le mie canzoni, però credo sia normale. Molti rapper lavorano così: gli mandano i beat, loro ci scrivono su, registrano, e poi gli altri fanno il resto del lavoro. Io ho questa maledizione di costruire la canzone da capo, dal primo colpo di cassa. Quindi faccio il beat, ci scrivo sopra, registro, faccio un minimo di mixaggio, sto dietro a tutto, e dopo un po’ inizio a odiare le canzoni. Questo sul piano musicale. Su quello umano sto imparando ad accettarmi come sono, a volte sono parecchio duro con me stesso però mi serve per non accontentarmi, lo trovo giusto e utile.

La cosa importante, a un certo punto, crescendo, è capire fino a che punto abbia senso essere cattivi, fino a quando non diventa un atteggiamento che si assume soltanto per cercare di sfuggire da qualcosa, e resta invece la premessa per fare meglio. C’è stato un momento in cui mi odiavo, pensavo di non riuscire più a fare assolutamente niente.
Però resta una spinta, aiuta. Poi è vero che essendo una persona parecchio negativa ho bisogno di circondarmi di opposti, di persone che siano dei talismani, ho un sacco di amici così. Se invece becco delle persone come me, allora è una tragedia.

C’è stata una cosa, ne abbiamo anche parlato quan- do successe, che mi fece ridere moltissimo. Eri in radio e a un certo punto Linus ti ha chiesto: «Tu sei uno che fa una canzone quando è in uno stato d’animo particolare, sono tutti pezzi che sembrano essere scritti quando stai male, giusto?» e ha aggiunto: «Adesso come stai?», e tu «sto benissimo, infatti sto scrivendo delle canzoni di merda».
È vero. Per tornare al parallelo fra musica e cinema, che è la cosa che sto vivendo adesso e che mi piace molto, vedo questa differenza: quando provo a recitare sto bene, sto parecchio bene, però è diverso, non è che se sto bene recito male. Quando scrivo musica sto proprio male, è una sensazione strana, come se stessi vomitando, e conta che io le canzoni le vomito anche dal naso.

Credo che i più grandi momenti di ispirazione vengano da periodi complicati. Poi io sono uno fortunato, la mia vita è sempre andata bene, però emotivamente sono uno che si “mangia” molto dentro, e quando lo faccio nascono cose interessanti. Ci stiamo girando attorno da un po’, al rapporto fra te e il cinema, e credo sia giusto che ci racconti un po’ cos’è Blocco 181: come nasce, come si sta evolvendo, come pensi di far parte di questa cosa.
È tutto a uno stato embrionale, stiamo scrivendo. È una serie, io darò una mano per la scrittura, farò la colonna sonora e reciterò anche una piccola parte. Per ora, sarò un allenatore di boxe che viene dalla criminalità e sta cercando di scappare da quel mondo lì. Ci saranno tre protagonisti, una ragazza e due ragazzi. La matrice è crime, la storia è ambientata nella periferia di Milano. Ruoterà tutto molto attorno al coca-delivery, che è una tipologia di consumo molto diffusa nella città, più che in altre, dove sopravvivono le piazze di spaccio.

Io credo, questo è il mio punto di vista, che tra le cose che mi hai elencato la più complessa da fare, soprattutto come prima esperienza, potrebbe essere quella della scrittura. Per quanto riguarda la recitazione noi abbiamo condiviso il video di “Lunedì” e ho visto che tu hai un tuo carisma e una tua emotività che ti portano a essere credibile in qualsiasi cosa tu faccia. Però la scrittura, in questo caso, non è mai soltanto la tua, è quella di molte teste. È un processo creativo molto complesso, per esperienza.
parte che mi sto trovando bene con i ragazzi, ovviamente non è che scrivo io le cose, io sto lì con loro e cerco di dire la mia su alcuni particolari, sulla terminologia, su come funzionano determinate cose. E poi mi piace lavorare sulle mie battute. Ho visto Suburra, e conoscendoti molte cose che dici sono scritte da te.


Su Suburra calcola che nessuno degli sceneggiatori era romano praticamente. Senti, c’è una cosa che ti spaventa a morte? Ti aiuto: a me il tempo, io ho una paura fottuta di questo cazzo di tempo che passa, e più passa più mi fa paura.
Hai paura di invecchiare!

No, lo sai qual è il mio problema? Non ho una paura del tempo proiettata nel futuro, è che sono un nostal- gico e quindi ho una paura fottuta di lasciare il mio passato. Mi fa paura, che ne so, vedere persone con le quali hai fatto le vacanze dieci anni fa a Mykonos che adesso hanno figli. Non è paura di morire, è paura della velocità con cui scorre il tempo.
Ti capisco, anche io sono legato ai ricordi, sono molto nostalgico. Comunque ci penso spesso a cosa mi faccia davvero paura. Forse non sentire e non riuscire a parlare.

Rispetto a questo, ti ricordi che paure avevi da bambino? Io, per esempio, ho sognato per circa dieci anni la morte dei miei genitori quasi tutte le notti, ed è una roba che mi ha veramente cambiato la percezione di tutto. Forse è da lì che deriva la paura del tempo che ho: non è un problema legato alla mia morte o alla mia vecchiaia, ma al fatto che dobbiamo abituarci a un certo punto all’idea di perdere delle persone care. E io non sarò mai pronto abbastanza.
Quella è la paura più grande. Io sono molto legato ai miei genitori, soprattutto a mia madre, anche a mio padre, però con mia madre è proprio un rapporto particolare, la Sardegna poi è un luogo matriarcale. Ma cambiamo discorso.

Sì dai. C’è un filo sottile secondo me che divide due parole che nella mia vita sono state molto importanti: passione e ossessione. Sempre spulciando nel passato, ricordo a un certo punto di aver iniziato a fare qualcosa, di aver sentito veramente che fosse l’unica cosa da fare in quel momento, per poi guardarmi indietro e accorgermi che era diventata l’unica cosa importante, che era diventata a tutti gli effetti un’ossessione. E io sono molto legato all’ossessione, perché ho la sindrome di Tourette, che ne è in qualche modo connessa. Insomma, è una cosa alla quale penso spesso. Dimmi tu se la vedi questa linea sottile fra le due cose, se l’hai mai superata, se te ne sei reso conto.
Passione e ossessione sì. È un tratto familiare per me, io, mio padre e mio fratello abbiamo questa particolarità che se decidiamo di fare qualcosa, la facciamo in maniera ossessiva. Loro soprattutto nello sport, io più in altre cose. Capisco cosa dici, per me è o tutto o niente, sempre, se una cosa mi interessa voglio che diventi un’ossessione, con tutto quel che ne consegue.

Quando senti la necessità di doverti fermare, ci riesci mai davvero?
No. Nel senso, prendi la musica: un sacco di volte ho pensato “ora mi fermo, smetto”, però mi sono accorto che non sono più io a decidere. Cioè io posso dire “smetto di fare musica”, ma la decisione non è mia perché ci sono dei momenti in cui magari non rie- sco a produrre niente, e poi d’improvviso la musica viene a cercarmi, mi sveglia la notte, mi fa arrivare le idee. Devi solo aspettare, stare lì, ovviamente con la consapevolezza che ci sono momenti in cui la musica funziona e altri no. Quando acquisisci questa consapevolezza, allora ci convivi e devi solo aspettare. Però la decisione non è mia come non è tua, di questo sono sicuro.

«Il problema è che la gente, soprattutto ai rapper, addossa questa croce del dover per forza mandare un messaggio positivo. Invece è una stronzata: quando scrivi una canzone non devi fare retorica, non devi dire alle persone cosa fare»

Io ho un grande problema rispetto a questa cosa, perché ogni tanto sento davvero la necessità di fermarmi. E il problema è che magari ci riesco fisicamente e dico: “Ok, vado alle Maldive tre mesi”, però poi ho questo leggerissimo problema con la mania del controllo che non mi permette mai davvero di delegare qualcosa agli altri al cento percento, e quindi anche se siamo seguiti da persone incredibili e da grandi professionisti che svolgono benissimo il loro lavoro, io non riesco mai davvero a dire: “Ragazzi, io vado in vacanza, pensateci voi”, quantomeno con la testa.
Te la faccio io una domanda.

Vai.
Allora, nella musica praticamente non c’è mai un “adesso mi fermo”, anche in questo momento, mentre sto parlando con te, probabilmente sto scrivendo qualcosa nella mia testa. La domanda è: tu nel tempo libero usi la realtà per allenarti? Nella tua vita privata, quando vai a prendere il caffè, ti capita mai di provare un tuo personaggio?

Molte delle cose che mi sono trovato a dover raccontare sullo schermo erano il risultato di quel che avevo visto da ragazzo, che ho avuto la possibilità di vivere o visitare. Io faccio sempre questo esempio: è come se uno avesse una valigiona piena di roba, ogni tanto quando trova qualcosa di interessante la butta dentro, per poi tirarla fuori al momento giusto. Quindi sì, in realtà io ho fatto della curiosità e dell’osservare le mie armi migliori.
Fammi capire: tu devi interpretare un personaggio, esci, os- servi le persone e inizi a spulciare e cercare.

È anche questo, sì. Non solo; per esempio, sembra una cosa scontata però alcuni miei colleghi non lo fanno, io traggo grande ispirazione ancora dai film stessi, non sento più quel rischio che avvertivo una volta nel farlo. Mi spiego: il mio attore preferito è DiCaprio. A un certo punto però, mi sono chiesto quanto la mia voglia di prendere questa persona come esempio mi facesse rischiare di voler essere uguale a lui invece che creare una mia personale identità. È un problema che credo di aver superato proprio azzerando il rischio di poter sembrare un’imitazione di qualcun altro, e questo mi rende libero di ispirarmi a chi voglio. È anche nella musica, no?
Nella musica è un passaggio necessario. All’inizio assomigli sempre a qualcuno. E si vede, e si capisce. Dopo un po’ invece ti rendi conto che riesci a ispirarti senza copiare; hai copiato così tanto che inizi a capire come farlo senza farti sgamare. Però quello che volevo sapere è se tu prendi ispirazione solo da altri attori o anche dalle persone comuni. Quindi la domanda è: Aureliano di Suburra, chi è?

Aureliano di Suburra è mio cugino.
Eh, capito. Per Aureliano non ti sei ispirato a un altro attore, l’hai preso da tuo cugino. Ma lo sanno le persone che Aureliano è tuo cugino?

No, finora lo sapevano poche persone.
Scoop!

Ti faccio l’ultima domanda, ed è l’unica domanda, a parte quella iniziale sulle immagini nella memoria, che faccio uguale a te e ad Alessandro Michele. Visto che questa intervista la leggeranno molte persone e farà un bel giro, mi piace l’idea di poter dedicare un’attenzione speciale a qualcuno che ne ha di meno, e che dopo che io o te o Alessandro facciamo il suo nome magari ne avrà di più: se tu dovessi dire una persona che nella tua testa è uno da tenere d’occhio, chi ti viene in mente in questo momento?
Nella musica ce ne sono veramente tanti. Nel rap c’è una scuola nuova incredibile, soprattutto a Napoli e Milano, di ragazzini che sono tornati a rappare. Uno in particolare faccio fatica a nominarlo. Ne ho già parlato, ci sono tre ragazzi di Napoli che finalmente stanno uscendo, e molto bene, e sono J-Lord, Siciliano e Geolier. Però, ripeto, ce ne sono veramente tantissimi. Anche a Milano, come ti ho detto, c’è una scuola nuova. Tenetela d’occhio. E tu? Fra gli attori, c’è qualcuno di nuovo?

Racconterò questa piccola storia in chiusura. Io ho un carissimo amico, che si chiama Andrea, che è stata una delle persone che mi ha insegnato di più per quando riguarda la recitazione, in assoluto, è stato veramente un mio maestro e tutto quello che so fare per quanto riguarda l’improvvisazione me l’ha insegnato lui. Organizzavamo, tempo fa, dei workshop di recitazione, facevamo delle classi miste anche di gente che aveva, che ne so, una macelleria e voleva provare a recitare, veramente un’esperienza umana incredibile. Un giorno entrai e c’era questo ragazzo che stava veramente tre passi davanti agli altri, e per fortuna adesso se ne sono accorti. Si chiama Gabriel Montesi, farà una serie Sky. È in Romulus, è in Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, un vero talento. Ci tengo particolarmente a dirlo perché Gabriel, anche da molto giovane, anche quando doveva fare sei lavori alla volta per mantenersi, come abbiamo fatto in tanti all’inizio, aveva una dote che è il segreto vero di questo mestiere: il non sentirsi giudicato da niente e nessuno. Non gliene fregava un cazzo neanche a vent’anni di quello che pensavano gli altri, e questa libertà, che secondo me è alla base di questo mestiere, l’ha portato a esprimere tutto quello che ha dentro. E quindi sono contento di poter avere il suo nome su questa rivista, perché se lo merita.
Che bomba, grande, bellissimo. Grazie.