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Storia emblematica di Ruth Davidson

Si dimette la leader scozzese. Conservatrice, lesbica, da sempre contraria alla Brexit: perché la sua parabola è utile per capire il Regno Unito di oggi.

di Gabriele Carrer

Ruth Davidson alla conferenza del Parito conservatore a Birmingham, 1 ottobre 2018. Foto di BEN STANSALL/AFP/Getty Images

Se è vero che la Brexit è un fenomeno tutto britannico, o più precisamente inglese, e che poco ha a che fare con il rapporto tra il Regno Unito e l’Unione europea, allora c’è una notizia che merita probabilmente maggiore attenzione rispetto alle forzature parlamentari messe in atto dal nuovo primo ministro Boris Johnson nel tentativo di non dover chiedere a Bruxelles un nuovo rinvio della data d’uscita. Qualche giorno fa il ramo scozzese del Partito conservatore ha perso il suo leader, Ruth Davidson, che in otto anni aveva innovato e rinnovato i cuori che battono a destra oltre il Vallo di Adriano, raggiungendo risultati senza precedenti: nelle elezioni per il Parlamento di Holyrood del 2016, i conservatori scozzesi hanno scalzato dal secondo posto i laburisti spaventando i nazionalisti dello Scottish National Party (Snp) guidati da Nicola Sturgeon; l’anno successivo fu il nuovo risultato stupefacente del suo partito (passato da uno a 13 seggi su un totale di 59 «scozzesi» alla Camera dei Comuni) a salvare la faccia all’allora premier Theresa May che perse la scommessa di un voto anticipato per rafforzare il suo mandato sulla Brexit a Westminster.

Ora che al numero 10 di Downing Street si è insediato l’uomo che più si è speso per il Leave e a cui dopo tre anni viene data l’occasione di trasformare quel voto in Brexit, le ragioni dietro la scelta di indire quel referendum stanno riemergendo. Pensata per rispondere ai nuovi regionalismi individuando nell’Unione europea il nemico esterno che nega i sogni imperialistici al Regno Unito, quella consultazione sta al contrario fornendo nuova benzina all’indipendentismo scozzese e alla causa repubblicana irlandese. Ma è proprio a partire dalla battaglia contro l’Snp sui progetti di addio della Scozia al Regno Unito che Ruth Davidson (protagonista del fronte unionista del «no» all’indipendenza scozzese nel referendum del 2014) ha costruito le sue fortune. Ed è in questo quadro che dobbiamo leggere l’uscita di scena di questa ragazzona che a breve compirà 41 anni e che non ha mai nascosto le difficoltà a rapportarsi con Boris Johnson e in particolare con il suo piano di tagli alle tasse, che colpirebbe gli scozzesi a beneficio degli inglesi.

Durante la conferenza di partito del 2018 l’allora leader Theresa May aveva citato tre esempi che dimostravano la sua teoria dei conservatori come «partito delle opportunità». Il primo: Sajid Javid, figlio di un autista di pullman giunto nel Regno Unito da un villaggio del Pakistan nel 1961, allora ministro dell’Interno oggi Cancelliere dello scacchiere. Il secondo: Shaun Bailey, figlio della generazione Windrush, origini giamaicane e una vita a metà tra la strada e l’élite londinese, che l’anno prossimo cercherà di strappare al laburista Sadiq Khan la guida della City. Il terzo: quello di Ruth Davidson, che ad aprile era finita nella prestigiosa lista delle 100 persone più influenti secondo Time e che di lì a poco avrebbe dato alla luce a un figlio, Finn Paul, avuto con la sua compagna grazie alla fecondazione in vitro.

Ruth Davidson è parte integrante dell’era di David Cameron. Basti pensare a quello che disse l’ex premier sui matrimoni gay: «Sono a favore del matrimonio gay perché sono un conservatore». E dopo la sconfitta del Remain e la successiva uscita di scena di Cameron, le distanze tra lei e il nuovo Partito conservatore, quello della Brexit, sono aumentate. Perché lei, ex giornalista della BBC e riservista, appassionata di camminate e kickboxing, è la paladina dei cosiddetti moderati, quelli europeisti ma che si definiscono liberali e liberisti, sostenitori della Big Society cameroniana che vede nella società civile e non nello Stato la risposta alle disuguaglianze, sospettosi dell’Unione europea ma mai anti Ue.

Le prime difficoltà con il nuovo corso del suo partito sono nate nel 2017, quando Theresa May perdendo il suo azzardo elettorale (e la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni) è stata costretta a scendere a patti con il Partito unionista democratico dell’Irlanda del Nord per continuare a governare. Da allora quella decina di deputati del Dup, protestanti e molto di destra, tiene sotto scacco l’esecutivo e tutto il Paese sulla Brexit. Tra loro c’è anche David Simpson, che una volta in Parlamento ha detto che nel Giardino dell’Eden c’erano Adamo ed Eva, mica «Adam e Steve».

È proprio da quelle elezioni che le hanno fatto guadagnare peso nel partito che è iniziato il distacco. Un anno fa usciva il suo libro dal titolo obamiano Yes She Can: Why Women Own the Future, definito dal Sunday Times, in un momento di nostalgia dei tempi di David Cameron, «moderno, deciso e fresco». Nel volume racconta la sua vita, la sua compagna e anche la gravidanza. Nelle interviste che hanno anticipato l’uscita, invece, era tornata sulla sua adolescenza difficile, fatta di depressione, che l’ha spinta a lanciare una battaglia a sostegno di politiche per la salute mentale, e sul suo futuro politico. Mettendo la famiglia davanti a tutto ha dichiarato anche che non correrà mai per la guida del Partito conservatore: «Tengo troppo alla mia relazione e alla mia salute mentale».

Si è messa in aspettativa dalla leadership dei conservatori scozzesi da settembre a maggio, ma la nascita del nuovo governo Johnson l’ha convinta a fare un passo indietro. Ha parlato di «motivi familiari», spiegando che l’idea «di possibili elezioni, che significa passare centinaia di ore lontana da casa mia e dalla mia famiglia, ora mi mette grande apprensione» e che diventata madre non vuole ripetere i suoi errori precedenti, che per diventare «un buon leader» l’avevano portata a essere «una pessima figlia, sorella, compagna e amica». Ma le ragioni politiche non sono tardate ad arrivare. «Molto è cambiato negli anni della mia leadership, sia dal punto di vista personale sia nel contesto politico. Non ho mai nascosto le mie difficoltà sulla Brexit ma ho tentato di tracciare un corso per il nostro partito che riconoscesse e rispettasse il risultato del referendum, cercando allo stesso tempo di massimizzare le opportunità e mitigare i rischi per le principali attività scozzesi».

Giovane, lesbica, membro della Chiesa di Scozia, ma senza quell’educazione elitaria né quei legami famigliari che spalancano le porte del Partito conservatore britannico da secoli. Ma nonostante questo, grazie alla sua grinta e alla sua dedizione, è riuscita a conquistare la leadership a soli 33 anni, dimostrandosi un osso duro a Holyrood per una politica esperta come Nicola Sturgeon. Così, ora, a renderle omaggio sono accorsi perfino i suoi avversari interni. Come Murdo Fraser, da lei sconfitto nella corsa alla leadership del 2011. «L’avevo sottovalutata», ha scritto sullo Scotsman: «Ci mancherà Ruth come leader, ma con le sue idee il nostro partito avrà ancora un futuro raggiante». Idee che però non sembrano di godere di molto consenso a Londra, dove gli uomini di Johnson stanno cercando di fermare la corsa di Rory Stewart, vicino alla Davidson ma epurato dal partito dopo essere stato considerato un astro nascente, verso la guida del ramo scozzese. Ed è probabilmente per questo che lei ha scelto di fare un passo indietro, in attesa di tempi migliori, in attesa magari di essere chiamata a gran voce dagli europeisti Tory a salvare il partito nel caso in cui un nuovo referendum dovesse ribaltare la Brexit e la recente impostazione dei conservatori, ricordando a Londra che il Regno Unito non è soltanto la City ma neppure l’Inghilterra.