Cultura | Estate

Leggere Proust a Roccamonfina

Cosa fare con i ricordi di un luogo nel quale si sono vissute sia le estati più felici che i momenti più deprimenti della propria vita?

di Fabrizio Spinelli

Per molti anni non sono andato a mare d’estate, cosa insolita essendo io nato al sud, per di più in una citta di mare, ma preferivo la montagna, o meglio, come spesso mia madre mi rinfacciava, la collina. Un paese piuttosto squallido, senza grosse attrattive, tolto il parco fatto di villette che lo sovrastava, e dove la mia famiglia aveva una casa (su come, negli anni ’70, riuscì ad accaparrarsi quella casa, ci sarebbe molto da dire, ma non qui). Il parco aveva due caratteristiche principali: una piscina e i numerosi castagni sparsi sul viale e nei piccoli appezzamenti di terra retrostanti le villette, oltre cui si estendevano le pendici di un bosco. Non so se si possa tecnicamente definire bosco, ma tant’è, noi tutti lo chiamavamo «il bosco».

Salto la parte dell’infanzia felice. Dei giri in bicicletta, delle sere passate a giocare a nascondino, del contatto con la natura, delle cacce al tesoro, delle mattinate assolate a fare i tuffi in piscina, il super liquidator, le partite a pallone, i silenzi postprandiali rotti dal frinire delle cicale. Ho 12 anni e sono un bambino grasso e sgraziato, ho i denti storti, costumi dozzinali, i capelli crespi e gonfi con il ciuffo ossigenato, leggo molti fumetti, sono tutto sommato felice. C’è un solo problema: non so ancora riconoscere la forma di un culo, ma mi piacciono le ragazze, tutte, indistintamente, mi struggo dal desiderio. Nello specifico: c’è un gruppo di sedicenni che ogni mattina scende in piscina a prendere il sole, non fanno il bagno perché il cloro rovina l’abbronzatura, si rinfrescano con degli spruzzini riempiti a casa. Sono una piccola tribù, dominata da uno spirito cameratesco: l’indifferenza, se non la crudeltà con cui mi trattano (simile a quella che io riservavo per gli insetti) sono parte integrante del loro fascino. Sono ragazze diversissime tra loro, ma i tratti di ognuna vengono sintetizzati dallo sguardo in un plasma amorfo, indistinto e confuso: una macchia oscura di desiderio che gratta il mio campo visivo. A quell’età l’essere umano è così sensibile che ancora non ha rinunciato al desiderio infantile di possedere qualcuno. Proust racconta qualcosa di simile nella seconda parte di À l’ombre des jeunes filles en fleurs, quando sulla spiaggia di Balbec è abbacinato dalla grazia multipla delle ragazze della brigata: Albertine, Andrée, Rosemonde ecc. (non sa orientarsi tra di loro al punto di scegliere Albertine «per procura»). Leggiamolo: «Ogni volta che l’immagine di donne così diverse penetra in noi, a meno che l’oblio o la concorrenza di altre immagini non l’elimini, non abbiamo pace finché non abbiamo convertito queste estranee in qualcosa di simile a noi, la nostra anima essendo dotata a questo riguardo dello stesso genere di reazione e di attività che ha il nostro organismo fisico, il quale non può tollerare l’immissione nel suo seno di un corpo estraneo senza industriarsi subito a digerire e ad assimilare l’intruso».

Chi conosce la biografia di Proust sa quanto lo scrittore da giovane fosse preda di quella che un tempo si chiamava «malattia dei nervi», e che noi moderni potremmo intendere come una forsennata tendenza all’autoerotismo. Ecco, anche io come unico modo di raffinare la forte impressione causata dalla vista delle ragazze, «di digerire e assimilare l’intruso», nel tentativo di fare mio tutto quel materiale luccicante, chiudevo gli scudi delle finestre e mentre mia nonna (con cui dividevo la casa) nella controra riposava, mi nascondevo sotto al tavolo, tra i piedi delle sedie, e mi abbandonavo a lunghissime sessioni di autoabuso. Non so come descrivere quella sensazione: mi sentivo un embrione, sapevo di viscere di calamaro.

Ovviamente, ciò non mi bastava. Una sera, a pochi giorni dalla fine delle vacanze, mi avvicinai al gruppo. Le ragazze attendevano nel parco che si facesse l’ora per scendere in piazza, dove si sarebbero viste (all’epoca non lo sapevo, ma ora ne sono sicuro) con i ragazzi del paese (ci starebbe una bella descrizione, ma ancora: non qui). Mi feci coraggio e porsi loro un foglio di carta. Inizialmente pensarono si trattasse di una poesia, quando lo guardarono meglio lessero:

Martina 37

Sara 21

Roberta 42

Andrea 19

Giulia 26

Fabrizia 12

Nicole 32

Erano disorientate e mi chiesero spiegazioni che non diedi.

Ora siamo nel 2014 e l’ultimo ricordo che mi lega a Roccamonfina è risalente ai miei diciotto anni: mi ero appena iscritto a una scuola di cinema a Milano e passavo i pomeriggi nel bosco a filmare le diverse morfologie degli alberi, le loro stranezze, i loro colori, le protesi di muffa che si formavano sulla corteccia, alcuni buchi nei tronchi che mi ricordavano il cosmo. Erano momenti estatici, di romanticismo compulsivo, che rispondevano a una sensazione che tutti, nell’adolescenza, abbiamo provato: che le cose che guardiamo rispondono al nostro sguardo, che in qualche modo lo conservano. La tappa ontogenetica di una Stimmung che alla specie è per ragioni storiche preclusa. Mentre riprendevo per alcuni minuti degli scoli di resina o il moto delle foglie scosse dal vento, pronunciavo delle lunghe poesie che inventavo sul momento. Lasciamo questo patetico bozzolo di essere umano e torniamo al 2014. Sono anni che non vado a Roccamonfina ma, annoiato dall’estetica dell’estate in città e tanto più dai viaggi con gli amici (e soprattutto a pezzi dopo la rottura con *****), decido di chiudermi in mansarda a leggere il Finnegans Wake e badare a mia nonna che ormai si è fatta anziana e non è più autonoma. Un mese in montagna («in collina») in quasi totale isolamento (i miei coetanei hanno ormai abbandonato Roccamonfina, ci tornano di rado e per pochi giorni: niente fanciulle in fiore) a leggere un libro che assomiglia a uno scherzo.

Dopo due giorni sono in macchina con D., un trentenne del paese conosciuto nell’unico bar aperto fino a tardi, per andare a comprare della droga. Fumo molti spinelli con un editore famoso la cui famiglia viene da generazioni a Roccamonfina; nella mansarda di casa, mentre mia nonna chiacchera con le amiche, guardo tutto Mad Men dopo aver mangiato dell’oppio; faccio esperimenti con Lsd che prendo prima di andare in piscina e di fare passeggiate nel bosco e di scrivere un paper su Cavalcanti (solo anni dopo avrei capito che quello che stavo facendo era banale microdosing). Quando il mio amico Claudio alla fine di agosto mi venne a prendere per tornare a Napoli mi trovò in condizioni pietose. Appena salii in macchina gli vomitai sul cruscotto. Passai una settimana a casa sua a farmi accudire, leggendo il meridiano di Wallace Stevens, guardando la Serie A e bevendo estratti di cetriolo. Fu l’ultima volta che andai a Roccamonfina: la solitudine, la natura, le droghe e i classici del modernismo non facevano per me.

Ho detto una bugia. C’è un ultimo capitolo, molto breve. Con la morte di mia nonna (su come questa morte sia legata in mondo indissolubile a Proust e a Roccamonfina vorrei un giorno scrivere qualcosa: non lo farò) in effetti nessuno in famiglia ha voluto più tornare in quel parco, in quella villetta, in quel paese così micragnoso in cui tuttavia io avevo vissuto i momenti più felici (gli unici?) della mia vita. Flaiano: «L’infanzia è l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare». Insieme a mia madre e il compagno ci tornammo tuttavia nel 2020, in pieno Covid: l’idea di passare l’estate a Napoli dopo il lockdown ci deprimeva, e al contempo non ci sentivamo abbastanza sicuri per viaggiare. Fu un periodo tremendo. Guardavo il parco, i castagni e la piscina come tante figure mute, antichi reperti di una storia da cui ero totalmente separato. Il loro linguaggio cifrato non affiorava più alla coscienza, era come una poesia straniera senza il testo a fronte. Era il momento di costruire nuovi ricordi, esattamente come stavano facendo i ragazzi con cui ero cresciuto, che per me erano ormai degli sconosciuti: dopo aver abbandonato Roccamonfina durante la giovinezza, ci erano tornati a trent’anni, con moglie o marito e figli. Le depressioni frequenti e il Covid del resto erano stati un allarme: dovevo cambiare stile di vita, porre fine a quest’eterna adolescenza, trovare un lavoro, sistemarmi, fare dei figli e farli venire in vacanza nel parco, in modo che tutto sarebbe ricominciato da capo, i tuffi, il nascondino, la natura, il super liquidator, ma da un’altra prospettiva. Così mi avvicinai a mia madre e le dissi «Vendiamo Roccamonfina, non voglio più vedere questo posto, mi dà ai nervi, siamo degli estranei, odio i bambini piccoli».

Nel frattempo ho smesso di viaggiare, scoprendo che, sostanzialmente, non mi piace (anche se quando me lo chiedono dico che la mia è una scelta etica. Non è vero, come forse non è vero che ho smesso di viaggiare) e Roccamonfina è diventata famosa in tutta la Campania, anche tra le persone che frequento, per la sua Sagra della Castagna, sempre esistita ma il cui indotto negli ultimi anni ha prodotto qualcosa di sconcertante, come dimostrano i numerosi meme dedicati all’evento. E questo proprio quando i suoi castagni sono stati colpiti da una malattia che ha reso i loro frutti nocivi (nel 2018 alcune persone del luogo si dissero convinte che questo virus provenisse dalla Cina). I prodotti utilizzati per curarli (pare che servano svariati anni) hanno finito però per avvelenare il terreno, privando il paese anche dei suoi decantati funghi porcini, che adesso sono importati – congelati – da Cusano Mutri. Le castagne della Sagra vengono dalla Serbia.