Cultura | Dal numero

Come capire un mondo con sempre più confini

In un mondo che appare più grande e complicato di quello che pensavamo, riviste, libri, podcast e profili social raccontano un momento culturale in cui l’interesse per la la geopolitica e i luoghi altri è al suo apice.

di Anna Momigliano

Se qualcuno dovesse chiedermi quando ho iniziato ad accorgermi che il mondo stava cambiando, come se gli spazi intorno a me si facessero improvvisamente più vasti e al contempo più angusti, probabilmente risponderei: nel 2018. In molti questa cosa avevano iniziato a intuirla un paio d’anni prima, con la Brexit e la vittoria di Donald Trump; però io, che ci metto un po’ a metabolizzare, ho iniziato a rimuginarci sopra quando è uscito “Small Worlds”, il brano di Mac Miller: «The world is so small ‘til it ain’t». Quell’attacco – probabilmente non aveva nulla a che fare con le relazioni internazionali e molto a che fare con le relazioni personali di Miller – quell’incipit alle mie orecchie di secchiona sembrava racchiudere in sé un senso più grande, quella sensazione che abbiamo condiviso in molti, quando ci siamo resi conto che quello che ci eravamo abituati a pensare come un globo senza confini, invece è fatto di confini, che il mondo sembra piccolo fino a quando, tutto d’un tratto, non lo sembra più. Sempre nel 2018, poche settimane prima dell’uscita di quel singolo. Vladimir Putin teneva un discorso alla Società Geografica di San Pietroburgo, dove prometteva di ristabilire «la verità storica e geografica», che oggi suona come una minaccia e avrebbe dovuto suonarlo già allora.

E ora pigiamo il tasto fast forward fino ai giorni nostri. Quello che vorrei provare a fare qui non è l’ennesima analisi sulla globalizzazione che ha fatto un passo indietro, e neppure una riflessione su come la mia generazione si sia resa conto, un po’ di colpo, che il mondo non è piatto, fatto di confini porosi e differenze in via d’estinzione. Sono discorsi già fatti da altri, cose che, chi più, chi meno, ormai abbiamo assimilato. Oggi, nel 2023, vorrei provare a mettere a fuoco il day after, come questa presa di coscienza abbia prodotto quello che, in mancanza di termini migliori, potremmo definire un “momento culturale.” Osservando alcune tendenze dell’editoria e dei media, per non parlare di un certo chiacchiericcio su internet, l’impressione è che ci sia un interesse diffuso per i temi che riguardano la geografia, in tutta la sua fisicità e in tutta la sua vocazione a circoscrivere: mappe, confini, un racconto del mondo focalizzato sul particolare, inteso non come dettaglio, ma in contrapposizione all’universale.

Penso, per esempio, alla popolarità di The Passenger, la collana di Iperborea dove ogni volume ha l’ambizione di esplorare un luogo, con una varietà di pezzi lunghi a metà strada tra giornalismo e letteratura, che ricordano i dispatch dei corrispondenti di certi giornali americani. Penso a libri come La Terra è rotonda, il recente numero della serie “Cose spiegate bene” a cura del Post, interamente dedicato ad «argomenti legati alla geografia», dove il titolo fa il verso al celebre saggio sulla globalizzazione di Thomas Friedman (Il mondo è piatto, del 2005). O come La signora delle merci, appena pubblicato da Luiss University Press, dove Cesare Alemanni analizza come la logistica, insomma la reticolare movimentazione fisica di merci da un capo all’altro del globo, attraverso hub dedicati, ha plasmato il mondo come lo viviamo oggi. Penso al successo in edicola di Limes, la rivista di geopolitica il cui nome significa, non a caso, “confini,” ma anche all’interesse suscitato da podcast di approfondimento sugli esteri come Stories di Cecilia Sala e Altri Orienti di Simone Pieranni. Penso, soprattutto, alle mappe che proliferano sui giornali e online, e che, specie da quando c’è la guerra in Ucraina, invadono le timeline dei miei social media.

In un articolo uscito sul Sunday Times, Tom Calver, il data editor della testata inglese, raccontava come, da quando Putin ha invaso l’Ucraina, «siamo tutti diventati ossessionati dalle mappe», proprio come all’inizio della pandemia eravamo ossessionati dai fogli Excel coi dati su decessi e contagi: le cartine che tracciano, o cercano di tracciare, l’offensiva russa e le controffensive ucraine sono diventate la valvola di sfogo della nostra ansia di restare aggiornati, secondo le dinamiche un po’ masochiste del doomscrolling, e insieme ci danno l’illusione di avere la situazione sotto controllo. Del resto, ricordava Calver, i primi segnali concreti dell’invasione russa li abbiamo visti, nelle prime ore del 24 febbraio del 2022, proprio su Google Maps, quando un alert ha segnalato un ingorgo sulla strada da Belgorod a Kharkiv, alle tre del mattino: «Probabilmente erano mezzi rimasti bloccati dietro i convogli militari».

La fascinazione per le mappe è un fenomeno ben noto e che infatti ha un nome: cartofilia. Tra gli appassionati c’è Jerry Brotton, docente di Studi rinascimentali alla Queen Mary University di Londra, autore del saggio La storia del mondo in dodici mappe (uscito in Italia per Feltrinelli del 2013, tradotto da Virginio
Sala) e più recentemente dello speciale radio della Bbc Mapping the Future. Che sia uno storico, e non necessariamente un geografo, a occuparsi di mappe non deve stupire: «Da qualche decennio ormai c’è un forte interesse nella mappatura da parte di chi si occupa di storia e di filosofia», mi ha raccontato in una chiacchierata telefonica. «Si è sviluppato un interesse a come percepiamo lo spazio e come ne parliamo», precisa (non è un caso che usi il termine mapping, il tracciare mappe, anziché maps).

Brotton sostiene che, se questo interesse adesso si sta estendendo dalle cerchie accademiche a un pubblico più ampio, la spiegazione sta anche nello spirito del tempo: «Oggi tendiamo a pensare in termini più spaziali che storici», fa notare. «Questa è una fase di disorientamento, la gente non si sente sicura del suo posto nel mondo, così le mappe sono diventate un meccanismo, mentale ed esistenziale, per ritrovarlo». Il problema è che questo desiderio di collocazione, di tracciare linee precise, può creare illusioni. Brotton, per esempio, guarda con scetticismo l’entusiasmo verso le mappe come strumento di informazione sulla guerra: «Ogni mappa che si trova online e che riguarda una questione politicamente sensibile è, potenzialmente, manipolata: è importante tenerlo a mente come punto di partenza».

Trovo interessante che Brotton mi abbia parlato di disorientamento, perché è un termine che implica la perdita, e dunque la ricerca, di un punto di riferimento. Ultimamente mi è capitato di ripensare alla Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (in Italia tutta pubblicata da Einaudi, nella traduzione di Cristiana Mennella), dove lo spaesamento, la perdita del sé in uno spazio indefinibile, è il tema centrale, eppure compare una parola, assai cara all’autore, che ne è l’esatto opposto: terroir. Il termine, mutuato dalla viticultura, dove indica l’insieme del microclima e delle caratteristiche del terreno, è usato da VanderMeer per trasmettere «quel profondo senso di un luogo, che è più della somma delle sue parti», come ha poi spiegato in un’intervista all’Atlantic. O, come dice un personaggio nel secondo romanzo della trilogia, «il punto è che non possono esistere due zone identiche».

Se c’è un prodotto culturale che incarna bene questa concezione dei luoghi come elementi unici, irripetibili, e che siano qualcosa di più della somma delle loro parti, è The Passenger. Cristina Gerosa, la publishing editor di Iperborea, la definisce una serie di “mook”, un genere a metà strada tra il libro e la rivista. In un’intervista con Studio racconta che la collana è nata, inizialmente, pensandosi come un’alternativa, o un superamento, delle guide di viaggio, in un’epoca in cui le informazioni che un tempo si trovavano sulle guide ormai la gente va a cercarle su internet: «Ormai informazioni pratiche, come dove trovare una buona birra, sono accessibilissime, però ci sembrava che fosse difficile trovare pubblicazioni che raccontano la contemporaneità di un luogo».

Col tempo, però, The Passenger è diventato qualcosa di più di una risorsa per viaggiatori intellettualmente curiosi. Stando a quello che ho avuto modo di osservare nelle bolle che frequento, ormai è un appuntamento fisso per un certo tipo di lettori forti e anche un magnete per lettori occasionali: «L’organizzazione tematica geografica ha fatto sì che un lettore interessato a quel luogo vada a leggerci», spiega Gerosa. «La nostra filosofia si è andata formando nel tempo», precisa Tomaso Biancardi, l’editor che segue la collana e che si è unito alla nostra conversazione. «Il taglio è molto geografico, si parte da un luogo, però da lì abbiamo cominciato a domandarci: di che cosa si parla in quel luogo? Come si vive in quella società, in quel luogo?». Questo taglio geografico-narrativo, di cui The Passenger è stato un po’ l’apripista, almeno in Italia, quando è nato nel 2019, oggi è diventato molto più diffuso: «È una cosa che abbiamo notato anche noi, che in questo periodo le librerie sono piene di libri che parlano di geografia», dice Gerosa. Biancardi offre una spiegazione semplice, che ricalca in parte l’interpretazione di Brotton, lo storico: «C’è un’idea che il mondo si sta complicando e i libri servono per capirlo».

Questa idea di un mondo che si fa più complesso – o forse di un mondo dove è sempre più difficile illuderci che non lo sia – ha prodotto anche un rinnovato interesse negli approfondimenti esteri, che vadano oltre la notizia di cronaca: «La tradizione giornalistica italiana tende a vedere gli esteri come una cosa da mettere a pagina diciotto, tranne nei momenti particolari, e questo è decisamente un momento particolare», mi ha raccontato Cecilia Sala, giornalista del Foglio e autrice di Stories (Chora Media), uno dei podcast più seguiti e interessanti del momento. «Per un certo periodo ci eravamo convinti che gli anni bui fossero alle spalle, ci eravamo staccati dal mondo, avevamo perso la percezione che gli sconvolgimenti lontano da noi potessero avere conseguenze dirette».

L’illusione, secondo Sala, è crollata con il ritiro degli americani dall’Afghanistan, con le scene raggelanti dell’aeroporto di Kabul, di disperati che provavano ad aggrapparsi ai carrelli degli aerei: «Lì abbiamo capito che il mondo è un posto caotico e pericoloso e che questa cosa non finirà domani». Una delle conseguenze è stata il ritorno degli esteri in prima pagina, un’altra la ricerca di contenuti che spiegassero gli esteri in modo diverso: «Se pensiamo al passato recente, per esempio l’attentato al Bataclan, notiamo che c’era un racconto del terrorismo episodico ed emotivo, come se l’Isis fosse una catastrofe naturale. Invece, davanti allo scontro con Putin e alla possibilità di uno scontro con la Cina, c’è più consapevolezza che sono questioni sistemiche».

Sala non è l’unica ad avere individuato e intercettato l’esigenza di comprendere quello che succede nel mondo a livelli sistemici. È l’approccio alla base di La signora delle merci, il saggio di Alemanni sulla logistica, che ricostruisce come «le ragioni dei trasporti abbiano motivato lo sparpagliamento della nostra specie ai quattro angoli del globo». Con una prospettiva che unisce elementi di geopolitica e di Big History (altro genere saggistico-letterario che oggi va per la maggiore), Alemanni spiega, con efficacia, come ciò che succede in un luogo assai specifico abbia conseguenze dirette per luoghi diversissimi: «Persino una “leggera” siccità in uno dei Paesi più avanzati al mondo può causare enormi problemi ai sistemi logistici e alle infrastrutture da cui dipendono. Ne sanno qualcosa in Germania, dove nell’estate del 2022 settimane di caldo da record hanno portato il Reno a scendere sotto la soglia della navigabilità, con effetti che si sono riverberati su numerose attività. L’enorme fiume, il secondo dell’Europa occidentale per lunghezza, rappresenta una fondamentale arteria dell’economia europea (…) Cosa sarà di tutto questo nel momento in cui siccità con tale impatto diventeranno, come si prevede, tre volte più frequenti?». Torniamo sempre lì, il particolare che s’interseca col globale, il terroir, le caratteristiche uniche di un luogo che non può essere uguale a un altro. Ho notato questo fil rouge nell’editoria e nei media e l’impressione che mi sono fatta, pensando a tutto questo, è che i nostri consumi culturali tradiscano il desiderio di guardare oltre al nostro naso, ma anche di (geo)localizzazione quello che vediamo in un punto preciso, come per evitare di esserne sopraffatti.

Questo articolo è tratto da “New World Border – Il nostro posto nel mondo”, il numero di Rivista Studio in edicola. Se volete acquistare una copia oppure abbonarvi, potete farlo qui.