Cultura | Dal numero

Da Beverly Hills a Succession, la lunga storia dei ricchi sullo schermo

Dal numero di Rivista Studio in edicola, un viaggio nella storia recente della tv e del cinema che mostra quanto sia cambiato negli ultimi anni il modo di raccontare la ricchezza.

di Giulio Silvano

C’era una volta The O.C., per altri Dallas o Dinasty, per altri ancora Beverly Hills 90210. Gente coi soldi che ha problemi come noi, che ha anche i soldi che, certo, a loro volta creano problemi, ma che possono anche farne sparire alcuni. Non tutti però. Tycoon del petrolio in Texas o in Colorado, sviluppatori immobiliari della California, socialite di Los Angeles. E in mezzo persone normali che servono alla narrazione e che ogni volta sembrano suggerire che forse, con tutto quel drama nei licei elitari e nelle famiglie disfunzionali, madri alcoliste e padri fedifraghi, è meglio forse una sana e pacifica middle class Mulino Bianco. Le serie tv americane che vanno dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Zero mostrano soprattutto i ricchi nell’interazione con i meno ricchi. Dopo, invece, ci sono i ricchi, non i ricchi qualsiasi ma i mega ricchi, e basta. Prima ci sono degli outsider che arrivano e osservano quel mondo estraneo, non capacitandosi del tutto di come sia possibile vivere così viziati, ma piano piano si capisce che anche loro, i ricchi, hanno delle turbe che li umanizzano. Dopo, quando si parla di megaricchi, diventiamo noi pubblico gli outsider, siamo noi i Brendon e Brenda Walsh che, dalla noiosa e piccolo borghese Minneapolis finiscono di colpo nell’esclusiva West Beverly High School; siamo i Ryan Atwood che vedono i ragazzi viziati, biondi che giocano a pallanuoto e non si rendono conto che il mondo per la maggioranza non funziona come nell’Orange County. «Sai cosa mi piace dei figli di papà? Niente!», e via di pugni, conflitto di classe conoscitivo, statement identitario. Ma alla fine si diventava tutti amici, ci si rubavano fidanzate e fidanzati e, se si era bravi, studiosi, obbedienti, si finiva per fare la scalata sociale, scusandosi per i pugni della prima stagione. Ora, invece, con questa traslazione dell’outsider da personaggio della storia a pubblico, non c’è più alcuna scalata, non c’è più nessun percorso, nemmeno iniziatico. Tutto è statico. Nessuno perde mai tutti i soldi. A differenza dei Walsh o di Ryan Atwood però, noi restiamo solo a guardare, binge watching senza integrazione. In The O.C. ci sono i ricchi buoni e i ricchi cattivi, dopo ci sono solo i ricchissimi distaccati dalla realtà. Noi osserviamo e ci resta il giudizio e, in certi casi, la rabbia.

Fino al 2007, ultima puntata di The O.C., c’è ancora il sogno americano vivo e vegeto, c’è ancora negli script degli showrunner boomer e della Generazione X un’anima reaganiana. Nel 2007 viene svelata, diventa pubblica, la crisi finanziaria che da qualche mese sta facendo barcollare il sistema dei mutui subprime. Esplode qualcosa. A Zuccotti Park si riuniscono gruppi che manifestano contro l’ineguaglianza, contro i ricchi che vogliono diventare ancora più ricchi a scapito dei risparmiatori. Wall Street diventa sinonimo di avidità. L’antropologo David Graeber conia lo slogan «We are the 99 per cent». Bernie Sanders diventa protagonista del dibattito. La maggioranza è vittima di un gruppo minuscolo di individui che controlla le sorti economiche del mondo. Nel 2015 esce The Big Short di Adam McKay, che racconta i meccanismi scatenanti della crisi economica, e soprattutto la rapacità dei ricconi. Non la rapacità del self made man del Queens che vuole arrivare a vivere nell’Upper East Side, ma di chi vive già nella Billionaires’ row e vuole accumulare ancora e ancora, senza fine. Nei giornali si usa il termine “paperoni”. Non c’è più l’epica di Gordon Gekko o di The Wolf of Wall Street, dei cowboy della finanza. Sempre nel 2015 inizia Empire, sui mogul della scena hip hop a New York. Nel 2017 arriva Billions, incentrata sui crimini finanziari di un hedge fund manager. E nello stesso anno torna Dinasty, un reboot contemporaneo della serie sui petrolieri. Nel 2018 arriva Succession, e non è un caso che sia Adam McKay il produttore esecutivo e regista della prima puntata, critico del neoliberismo delle cravatte più che del populismo trumpiano dei redneck. Nel 2021 arriva The White Lotus, sui ricconi in vacanza nei resort esclusivi (Hawaii nella prima stagione, Sicilia nella seconda, e, si dice, Thailandia nella prossima). Nel 2019 e nel 2022 escono i due film della serie Knives Out, con un improbabile detective interpretato da Daniel Craig; nel secondo, Glass Onion, abbiamo una delle massime rappresentazioni del multimiliardario delle nuove tecnologie, un Edward Norton che riesce ad avere in prestito la Gioconda in cambio di soldi dati al governo francese. Tutto è parodizzato al massimo.

Lo spostamento di prospettiva della crisi finanziaria del 2007, che ha riverberi in tutto il mondo, mette in una nuova luce, estrema, l’ineguaglianza economica, e anche nell’intrattenimento ci si concentra solo sui miliardari e i megamilionari. Il Pov marxista arriva nella Hollywood mainstream, Hbo canalizza una lotta di classe persa in partenza. Noi, il pubblico, siamo il 99 per cento contro quell’1 per cento che vediamo raccontato. Ed è per questo che si attua un altro cambiamento, di genere: dalla situation comedy si è passati alla dark comedy. Tutto diventa satira. Dopo Occupy Wall Street, non è questione di aver fatto il Tasso o il liceo in periferia, avere i genitori laureati o che fanno i parrucchieri. Noi non-miliardari siamo tutti uguali. Un professore universitario è più vicino, finanziariamente, a un senzatetto che non ai genietti del tech che si mettono le T-shirt understatement grigie (che però sono di Brunello Cucinelli e costano 400 euro). Non si raccontano più i borghesi, ma, quelli che nel mercato si chiamano Ultra High Net Worth Individuals.

Non è un caso che tutte le grandi serie meglio scritte degli anni precedenti, diventate protagoniste del discorso, prodotti midcult da tesi di laurea, non siano mai totalmente satiriche – The Wire, Homeland, The Sopranos, Breaking Bad, House of Cards, Mad Men, True Detective – mentre Succession, che possiamo inserire in questa lista, trova la sua forza proprio nell’esagerazione burlesca. Non è un caso che la grande serie di quest’epoca sandersiana, scritta dall’inglese Jesse Armstrong, si concentri sul distacco dalla realtà, sulla smania e sulle psicopatie, sui comportamenti idiosincratici dei miliardari. Anche la politica perde di interesse, rispetto ai miliardari di New York, è impotente. Washington è solo un accessorio, il presidente si decide nella stanza di un hotel tra i proprietari di un network televisivo. Manhattan è la nuova Capitol Hill. Anche la serie antologica White Lotus è altamente satirica. E così il film «Il motivo per cui guardiamo questa ricchezza narrativizzata – ed è il motivo per cui si tratta di parodie e dark comedy – è simile al modo in cui giullari medievali sfottevano il re, è liberatorio». Se non nelle loro penthouse urbane, i megaricchi li vediamo in location esotiche, serviti e riveriti. In questo anche Sundown del 2021, film del messicano Michel Franco, mostra bene la villeggiatura degli ultra ricchi, raccontando di due fratelli miliardari eredi di una multinazionale di lavorazione della carne in un resort ad Acapulco. Tanti jet per spostarsi tra attici e townhouse incredibili, elicotteri per andare negli Hamptons, e quando non vediamo l’estrema opulenza nei beni materiali la vediamo nella sottomissione dell’esercito di servitori e assistenti e autisti che, come se fossero di una razza aliena sotto il giogo di padroni che ne hanno conquistato il pianeta, obbediscono a ogni capriccio dell’ultra ricco. Alla morte di Logan Roy il più disperato è la sua guardia del corpo, che di colpo non ha più una missione di vita.

Più degli status symbol, degli orologi, dei gioielli, dei cibi elaborati e minimalisti, delle auto e della vista su Central Park, la rappresentazione del mega ricco contemporaneo viene fatta tramite la servitù. Il manager del resort nella prima stagione di White Lotus dice alla sua stagista che ogni ospite deve essere trattato come uno «speciale e prescelto bebè dell’albergo». Quando arrivano gli ospiti Vip, questi devono essere coccolati come «bambini sensibili». Il manager ordina di «non essere troppo specifici, in quanto a presenza, in quanto a identità, ma generici. È un ethos giapponese, ci chiedono di sparire dietro le nostre maschere, come dei piacevoli aiutanti intercambiabili. Kabuki tropicale». Il servo deve scomparire. Il cliente, abituato da mattina a sera ad avere qualcuno che fa tutto per lui, deve restare sotto il vigile sguardo del cameriere, che ha l’obbligo, la missione, di anticipare ogni suo desiderio, ogni suo bisogno. Il servo non deve mai dire di no.

In Triangle of Sadness una russa ricchissima sul ponte del mega yacht a un certo punto decide che tutto l’equipaggio deve fare il bagno in mare, divertirsi, scendendo con lo scivolo fino all’acqua. Questa esagerazione – obbligare i sottoposti allo svago, per proprio sollazzo – mostra quanto per i mega ricchi il ruolo dei sottoposti sia dato per scontato. Hanno potere su di loro non solo sui doveri lavorativi, ma hanno anche il controllo – o pensano di averlo – sul loro divertimento e sul loro relax. Per rappresentare l’attenzione con cui la servitù prepara tutto alla perfezione, in attesa che gli ospiti e i padroni si sveglino, in questi film e serie vengono spesso usati dei montage in cui si vedono i servi sistemare le tavolate, aprire gli ombrelloni, setacciare la spiaggia, sistemare i cuscini, accendere candele. Tutto è lindo, immacolato, fresco, intonso. Non c’è spazio per errori. Ma il mega ricco, appena arriva, non resta sorpreso dalla perfezione, dall’eleganza, dalla cura con cui le cose sono state fatte per lui. In parte perché è abituato, in parte perché lo dà per scontato. Che sia l’estetica old money kennediana, di barche a vela, polo, Ray-Ban Clubmaster e Barbour, case a Martha’s Vineyard e ad Aspen, o quella dei wunderkid di Palo Alto, con i jeans e le T-shirt e le camere criogeniche nel seminterrato, domotica e superfood, quello che accomuna tutti è l’esercito di servitori che permette di concentrarsi su se stessi, che permette di coccolare i propri vizi, il proprio nichilismo o egocentrismo. Anche perché oggi è possibile, per quasi tutti, avere un soffio anche solo illusorio di life-style paralussuoso – non c’è più la Versailles vs. baracche fangose – almeno in Occidente. Oggi i ricchi di queste pellicole non hanno mai niente di eccezionale, la loro caratteristica principale è solo essere molto molto ricchi.

I soldi sono sempre stati un grandissimo strumento narrativo. Spesso il raggiungimento di uno status economico ha permesso di ottenere quello che si voleva, come l’attenzione di una donna amata in gioventù quando si era poveri – Il Grande Gatsby – oppure ottenere la vendetta – Il Conte di Montecristo. Lì c’era un’immedesimazione con il protagonista. Oggi l’immedesimazione con un Kendall Roy è più difficile. Non partecipiamo con lui all’ottenimento della fortuna, alla conquista di una bacchetta magica che tutto può (in questo i miliardari sono più simili ai supereroi Marvel, dove i miliardi sostituiscono i superpoteri), al massimo facciamo il tifo per lui nello scontro con un altro miliardario, per finta pena o simpatia. Il motivo per cui guardiamo questa ricchezza narrativizzata – ed è il motivo per cui si tratta di parodie e dark comedy – è simile al modo in cui giullari medievali sfottevano il re, è liberatorio. C’è una piccola parte di sogno ad occhi aperti – “Ah, se avessi quei soldi” – ma c’è soprattutto la derisione della plutocrazia che decide tutto nella nostra vita. Succession e Triangle of Sadness hanno l’eco di un antico carnevale, il giorno di festa in cui si provano a capovolgere gli equilibri di potere, con rappresentazioni grottesche dei ricconi, come i carri di Viareggio che deformano corpi e volti dei politici. I ricchi che in Squid Game giocano addirittura con le vite altrui, come un Giochi senza frontiere mortale, sono coperti da maschere di animali.

L’estremo si raggiunge nell’umiliazione o nella rivolta. Nel film di Östlund, Palma d’oro a Cannes nel 2022, il mal di mare causa la ridicolizzazione del mega ricco, opposta all’eleganza esibita nei modi in cui si mangia e nei piatti sofisticati che vengono serviti alla cena del capitano. Poi l’ospite dello yacht che fu di Onassis arriva addirittura a vomitare in pubblico, e quindi a vergognarsi, fino a esser ricoperto e galleggiare nelle feci e nelle acque di scarico. Chi poi sopravvive ai pirati, subirà la punizione definitiva nel ricevere ordini dagli stessi servi, in una società ribaltata che porta all’umiliazione finale. Anche in Succession vedere i miliardari avviliti, vittime di qualcosa, crea un effetto liberatorio e quindi attraente per l’audience. Il Kendall Roy triste, sconfortato, che si umilia davanti alla moglie e ai figli, che viene demolito dal padre e mortificato dagli sguardi dei familiari, diventa un meme di successo anche per questo motivo. Non vediamo l’ora di trovarci davanti a un momento cringe in cui i nababbi viziati sono costretti a subire angherie. Lo sconforto dei mega ricchi è il godimento del pubblico, una piccola vendetta per annientare almeno nella fiction la loro condizione di onnipotenza. Film come il messicano Nuevo Orden o il sudcoreano Parasite mostrano l’altra funzione catartica del cinema: il desiderio, la possibilità per i sottomessi di ribellarsi al padrone, la rivoluzione – impossibile – dei camerieri. Anche se nella prima stagione di White Lotus il servitore che prova a ribellarsi, muore.

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