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Renato Casaro, pittore di cinema

A Treviso una mostra racconta l’arte del manifesto cinematografico attraverso uno dei suoi maggiori interpreti, amato da Sergio Leone e Quentin Tarantino.

di Alessia Delisi

Renato Casaro e Sergio Leone

Nato a Treviso nel 1935, Renato Casaro è l’ultimo grande cartellonista del cinema. La sua fama comincia negli anni ’70 e si consolida nei due decenni successivi, quando realizza i manifesti di C’era una volta in America, Opera, Balla coi lupi, Il tè nel deserto, Nikita. Con lui finisce l’era del cartellonismo e si passa alla fotografia come mezzo di promozione del film. A celebrarne la carriera è oggi l’esposizione Renato Casaro. L’ultimo cartellonista del Cinema. Treviso, Roma, Hollywood, dal 12 giugno al 31 dicembre a Treviso in tre diversi spazi: la Chiesa di Santa Margherita, sede del nuovo Museo Nazionale Collezione Salce, il Complesso di San Gaetano e il Museo Santa Caterina. Qui ci racconta del suo mestiere e del suo rapporto con i registi del cinema italiano e internazionale.

Come ha iniziato?
Sono nato per dipingere. Fin da piccolo la pittura è stata la mia passione, imbrattavo di tutto. A 15 anni sono finito a lavorare in una tipografia a Treviso. Là ho imparato le regole della pubblicità e fatto la gavetta. Nel frattempo mi ero innamorato del cinema, mi affascinavano i manifesti, queste immagini che servivano a richiamare la gente in sala. Così ho trovato un lavoretto per i cinema della città: la sera, dopo la tipografia, creavo i sagomati che si mettevano all’ingresso per annunciare i film in uscita. Ogni tanto facevo entrare gli amici dalla porta di servizio e questo era bello, perché ci si poteva godere qualche spettacolo gratis.

Che successe poi?
Sognavo di andare a Roma e a 19 anni partii. Feci un provino allo Studio Favalli che negli anni ’50 era molto famoso – collaborava con la Lux Film. Mi presero e da lì cominciò la mia avventura come cartellonista.

Bernardo Bertolucci, Il tè nel deserto, 1990

Soprattutto per le pellicole minori, il “peplum” ad esempio [ovvero il cinema storico–mitologico degli anni ’50 e ’60 in Italia, ndr], spesso lavorava senza aver visto il film, come faceva?
Erano anni in cui il cinema italiano era all’avanguardia per quantità oltre che qualità. Si facevano così tanti film – i vari Maciste, Ercole, il gladiatore, ma anche i piccoli Western – che non si aveva il tempo di vederli. Si trattava comunque di uno stereotipo della pubblicità cinematografica, con il personaggio principale al centro e un po’ di movimento dietro, per cui bastava vedere le foto di scena, magari leggere il soggetto o la sceneggiatura. Naturalmente ci voleva un certo intuito, ma non era ancora tempo di sviluppare un pensiero originale. Verrà dopo, quando i film cominceranno a diventare più importanti e là sì, ci sarà bisogno di vederli, di studiare.

Dal 1955, anno del suo primo manifesto, fino agli anni ’90 ha realizzato più di mille opere. Come si è evoluta la tecnica in questo lasso di tempo?
All’inizio lo stile era un po’ impressionista, le immagini erano abbozzate e non c’era ancora la ricerca del dettaglio, dell’espressività. Oltre che per i tempi stretti, era un modo assai in voga di fare pubblicità per il cinema. Lavoravamo tutti così. Oggi può sembrare vecchiotto, allora invece era uno stile riconosciuto anche a livello internazionale. Poi, negli anni ’70, con la diffusione della fotografia in ambito commerciale, il mio modo di dipingere si è evoluto verso il realismo e lo studio della composizione, cercando più di togliere che di aggiungere. È cominciato il mio successo. Negli anni ’80 ero ormai abbastanza conosciuto, conteso persino. La svolta importante verso l’iperrealismo è stata quando ho scoperto l’aerografo – sono stato il primo a utilizzarlo per i manifesti cinematografici. Cominciavo a dipingere e poi finivo il lavoro con l’aerografo, che dava qualità, atmosfera, completezza. Sono arrivate così le commesse più importanti, come C’era una volta in America di Sergio Leone, L’ultimo imperatore di Bertolucci, Balla coi lupi di Kevin Costner e tante altre.

Il cartellonista aveva il compito di portare lo spettatore in sala, in un certo senso doveva essere all’altezza del regista. Cosa attraeva dei suoi manifesti?
Il non far vedere, ma lasciare immaginare. Era questo il mio stile, che tocca l’apice con il manifesto di Nikita di Besson. In quegli anni ormai ero entrato nella psicologia dei film, per così dire. Ma aiutava anche il rapporto con i registi e naturalmente il fatto di vedere le pellicole.

È vero che quando Bertolucci ha visto il poster de Il tè nel deserto si è commosso?
Con Bertolucci ho avuto un bel rapporto, eravamo in sintonia perfetta. Ricordo che per realizzare quel poster i contratti imponevano delle regole – se mettevi il volto di lei dovevi mettere anche quello di lui – e io, per evitare l’ostacolo, non ho messo né l’uno né l’altro, raccogliendo entrambe le figure in un mondo di sabbia. Quando lui l’ha visto si è commosso, è vero.

Bernardo Bertolucci, L’ultimo imperatore, 1987

Mi racconti del sodalizio con Sergio Leone, per cui ha realizzato quasi tutti i cartelloni.
Era un regista molto esigente, faceva valere la sua idea e la difendeva sino alla fine. Io ero il suo pupillo, scavalcava addirittura la distribuzione pur di avermi. Quando facemmo la pubblicità per Il mio nome è nessuno (il film fu prodotto da lui), ebbe l’idea di creare due manifesti: il primo, che doveva uscire in anteprima, mostrava un attore di spalle – si capiva che era Terence Hill, ma non c’erano né titolo né cast. Dopo due settimane uscì il secondo, con Terence Hill nella stessa posizione, vista però di fronte e accompagnata dai relativi crediti. Fu un colpo da maestro. Ancora oggi Terence Hill dice che senza i miei lavori probabilmente lui e Bud Spencer non avrebbero avuto lo stesso successo. È un bel riconoscimento.

Tra i suoi manifesti ce n’è qualcuno a cui è particolarmente legato?
Uno dei più riusciti per me è quello de L’ultimo imperatore. Anche qui c’è una storia: il film era a sfondo politico e gli americani avevano impostato la pubblicità sulle bandiere cinesi, mentre io esitavo – la politica non mi è mai piaciuta tanto. Quindi ho puntato tutto sull’atmosfera, creando questa luce che si allunga sul pavimento, che isola il bambino e lo rende indipendente dagli altri e che è chiaramente la luce di Storaro. «Profuma proprio di incenso», mi disse Bertolucci.

Nel 2019 Tarantino le ha chiesto di realizzare dei poster vintage per il film C’era una volta a… Hollywood. «You’ve always been my favorite», recita la dedica che le ha fatto per la mostra. Com’è andata tra voi?
Tarantino è un grande collezionista di manifesti. Gli piacciono specialmente i western italiani degli anni ’60 e ’70. Mi conosceva molto bene quindi. Mi ha chiamato perché voleva che creassi alcuni poster, tra cui uno che avevo già fatto nei primi anni ’70 per il film Il West ti va stretto, amico… è arrivato Alleluja – un film minore probabilmente, ma a lui piace molto quel genere – con il volto di Leonardo DiCaprio e un titolo inventato. È stata una bella esperienza.