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Yellowjackets, sopravvivere agli anni ‘90

La serie di Ashley Lyle e Bart Nickerson è una delle più chiacchierate e apprezzate di questa stagione televisiva, un mix spericolato che tiene assieme Lost, Cast Away e Il signore delle mosche, horror, teen drama e commedia degli equivoci.

di Francesco Gerardi

Foto da @shoyellowjackets, il profilo Instagram della serie

Leggendo una recensione di Yellowjackets pubblicata su Vulture, ho scoperto che nel 1996 Peggy Orenstein scriveva sul New York Times che l’anno in corso avrebbe dovuto essere ribattezzato «the year of the teenage girl». Sarà un caso ma, chissà, magari non lo è, Yellowjackets (negli Stati Uniti trasmessa da Showtime, in Italia da Sky) comincia proprio nel 1996. In questa versione di fantasia dell’anno della ragazzina adolescente, le giocatrici di una squadra di calcio di una high school del New Jersey, le Yellowjackets del titolo, salgono su un aereo per andare a giocare i Nationals, il torneo in cui si sfidano tutte le squadre vincitrici dei campionati statali. L’aereo precipita e le ragazze sono costrette a sopravvivere come possono nella natura selvaggia per un anno e mezzo, diciannove mesi in cui il cameratismo delle campionesse fa presto a corrompersi nella ferocia delle sopravvissute. «Abbiamo patito la fame, abbiamo cercato da mangiare, abbiamo pregato», così le sopravvissute raccontano quei diciannove mesi venticinque anni dopo ai tanti che pongono la domanda ovvia e inevitabile: cos’è successo davvero?

Tutta la serie sta in quella domanda, in quel “cosa è successo davvero” che è la bomba che Hitchcock si divertiva a mettere sotto il tavolo per spiegare come funziona la tensione dentro un film: lo sappiamo e lo vediamo che la bomba è lì, ma questo non diminuisce l’ansia all’idea di scoprire come e perché esploderà. In Yellowjackets la bomba viene messa in bella mostra sin dall’inizio. Nel cold open della serie si vede una ragazzina che fugge in mezzo a una foresta fredda di morte e imbiancata dalla neve. Non si capisce da chi o da cosa stia scappando. La ragazza a un certo punto cade dentro una trappola e muore impalata. La minaccia a questo punto si palesa: è una ragazzina anche lei, che ai piedi porta delle Converse rosa e in testa una maschera che è una mostrificazione sia dell’uomo che dell’animale. Come lei ce ne sono altre, raccolte in un semicerchio pagano fatto di neve e fuoco, al centro del quale siede una regina che è la prima a servirsi al banchetto ricavato dalle carni della vittima. Cos’è successo davvero? Come e perché le ragazzine innocenti che festeggiavano il gol al grido di «buzz buzz buzz» si sono trasformate in carnefici, in cannibali? Come e perché le ragazzine sopravvissute all’incidente aereo e alle brutalità della foresta sono riuscite a diventare adulte, parti integranti e funzionali (chi più, chi meno) della società?

In tutte le interviste che hanno concesso da quando la serie è uscita, i creatori Ashley Lyle e Bart Nickerson hanno sempre ripetuto che Yellowjackets comincia – ovviamente – con Il signore delle mosche di William Golding e con Cast Away di Robert Zemeckis. Sono le due ispirazioni che spiegano le metà esatte nelle quali è divisa Yellowjackets, le due linee temporali raccontate attraverso un andirivieni di flashback che mostrano come il trauma sia capace di spezzettarsi in un’infinità di frammenti e di sparpagliarsi nello scorrere del tempo, mantenendo intatta e micidiale la capacità di far danno. Lyle, quando vide Cast Away per la prima volta, rimase delusa dal fatto che Zemeckis avesse deciso che il rientro in società di Chuck Noland non era un fatto poi così interessante. Fu allora che cominciò a pensare che forse quella parte della storia sarebbe toccato a lei raccontarla. Un’intenzione che dimenticò presto e che ritrovò quattro anni fa, leggendo un articolo su un possibile prossimo “remake” del Signore delle mosche: in questa iterazione della storia le protagoniste sarebbero state tutte femmine, però. Rimase colpita – un po’ spazientita e un po’ divertita – da uno dei commenti all’articolo: «E che faranno queste ragazzine, collaboreranno fino alla morte?». In un’intervista al New York Times, Lyle ha rivelato che in quel momento pensò che la persona che lo aveva scritto poteva essere soltanto un maschio, uno che l’adolescenza l’aveva vissuta dall’altra parte dello specchio. «Quando andavo alle superiori, una ragazza che conoscevo mise del veleno nel cibo di una nostra compagna. Per divertimento».

Una scena dell’episodio pilota di Yellowjackets

È uno dei messaggi, questo, di cui la serie decide di farsi portatrice: forse il trauma è soltanto una scusa, in realtà una liberazione. A un certo punto della serie Shauna (interpretata da una stupenda Melanie Lynskey), una delle Yellowjackets sopravvissute, chiede a suo marito quand’è che si sono trasformati in persone tremende che fanno cose orribili, insinuando nella domanda la risposta già pronta, il trauma subìto venticinque anni prima. «Siamo sempre stati così», le risponde lui. Se c’è un pregio di questa serie è il rifiutare sia la vulnerabilità che la piacevolezza come tratto caratteristico dei personaggi: «Queste donne sono persone tremende. Nessuna di loro è emotivamente stabile. Non si può fare affidamento sulla loro capacità di prendere la decisione giusta. E tutto questo è grandioso», ha detto Christina Ricci, che interpreta la versione adulta e gioiosamente sociopatica di Misty.

A raccontarla così Yellowjackets può sembrare seriosa, persino cupa. In realtà, il suo pregio maggiore (o difetto peggiore, a seconda della definizione di equilibrio narrativo) è proprio la leggerezza. In Yellowjackets lo sforzo (auto)ironico è evidente nella parte che racconta il presente, perché c’è sempre un che di ridicolo nella disperazione di chi prova a mantenere il contegno mentre supera l’orlo della crisi di nervi. La parte che racconta il presente è quella in cui la mistery box si mescola alla commedia degli equivoci, in cui le Mean Girls crescono nelle Desperate Housewives, in cui il tema del trauma viene approfondito attraverso una spericolata riflessione metanarrativa: se l’adolescenza è di per sé un trauma, cos’è l’adolescenza per una ragazzina diventata troppo famosa, troppo presto? Da questo punto di vista, le scelte di casting per le Yellowjackets adulte paiono troppo perfette per essere un fortunato caso di serendipity: Melanie Lynskey, Christina Ricci, Juliette Lewis, star degli anni ‘90 messe dentro una serie che fa dell’epoca della loro adolescenza e del loro successo (e del loro trauma?) un period drama, un passato ormai tanto lontano che è arrivato il momento di raccontarlo a quelli che all’epoca non c’erano ancora attraverso le citazioni, l’oggettistica, la colonna sonora. «Sono stati molto intelligenti a scegliere proprio noi per raccontare lo zeitgeist degli anni Novanta», ha detto Juliette Lewis, brillante come non la si vedeva da tempo nella sua interpretazione di Natalie, 40enne tossicodipendente e struggente.

Le musiche che riempiono d’atmosfera la serie, le canzoni inserite nella tracklist di ogni singolo episodio sono frutto di un lavoro che dalle parole di Lynskey e Nickerson si capisce essere stato estenuante. Le risorse a disposizione non erano infinite e loro stessi hanno ammesso di aver spesso dovuto scrivere ai musicisti implorando di permettere l’uso di quella canzone in quella scena. Smashing Pumpkins, Liz Phair, Hole, PJ Harvey, Portishead, Ultravox, Jane’s Addiction, Prodigy, Offspring, Cranberries: la colonna sonora di Yellowjackets è un tesoro per i nostalgici, una parte essenziale del racconto per la quale i creatori hanno rischiato anche di sforare il budget (hanno raccontato di avere esagerato nel primo episodio, cosa che li ha costretti a ridurre la tracklist degli episodi centrali della prima stagione). Negli Stati Uniti Yellowjackets ha riscosso un grandissimo successo, una seconda stagione era scontata come erano scontati i malumori preventivi di quelli che già temono che il successo allunghi il brodo fino a fargli perdere ogni sapore. In attesa di scoprire cosa è successo davvero alle Yellowjackets, mentre aspettiamo di capire come e perché la bomba è scoppiata, possiamo solo fidarci delle parole di Ashley Lyle, che ha promesso che la storia finirà quando dovrà finire, senza trascinarsi. D’altronde, Lyle ha detto più volte che con Yellowjackets voleva soltanto raccontare «quella che mi sembrava una storia molto vera sulle ragazze adolescenti».