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Una editorialista del Washington Post è stata licenziata per delle dichiarazioni contro Charlie Kirk Karen Attiah ha scoperto di essere diventata ex editorialista del giornale proprio dopo aver fatto sui social commenti molto critici verso Kirk.
In Nepal hanno nominato una nuova Presidente del Consiglio anche grazie a un referendum su Discord Per la prima volta nella storia, una piattaforma pensata per tutt'altro scopo ha contribuito all'elezione di un Primo ministro.
Amanda Knox è la prima ospite della nuova stagione del podcast di Gwyneth Paltrow Un’intervista il cui scopo, secondo Paltrow, è «restituire ad Amanda la sua voce», ma anche permetterle di promuovere il suo Substack.
Luigi Mangione non è più accusato di terrorismo ma rischia comunque la pena di morte L'accusa di terrorismo è caduta nel processo in corso nello Stato di New York, ma è in quello federale che Mangione rischia la pena capitale.

Tutti i volti di Rankin

Intervista con il prolifico fotografo, fino al 24 febbraio a Milano con l'atto finale della personale From Portraiture To Fashion.

20 Gennaio 2020

Rankin è un fotografo instancabile. È un moto perpetuo. Ha una creatività bulimica. Finisce un progetto e ne ha già pronti altri dieci. Ha fondato riviste cult come Dazed & Confused, AnOther Magazine e Hunger. Ha curato una quarantina di libri. Girato film, documentari. E soprattutto ha ritratto chiunque. Non c’è cantante, attore, politico che non sia finito davanti al suo obiettivo. Pensate a un nome… Bene, l’ha fotografato. Dalla Regina Elisabetta, che è riuscito a far sorridere (cosa di per sé piuttosto complicata, visti i tempi che corrono) fino al sottoscritto. Ma soprattutto ha impresso la sua estetica, ironica e sensuale, all’editoria, alla moda e allo stile degli ultimi venticinque anni. 54 anni, originario delle Lowlands scozzesi, è cresciuto nello Yorkshire prima di sbarcare a Londra, conquistata fin dal giorno in cui ci ha messo piede per la prima volta. Oggi vive e lavora a Kentish Town, quartiere super chic a pochi passi da Hampstead Heath, in un gioiello architettonico che si è fatto costruire da Trevor Horne Architects e che ha deciso di chiamare Annroy.

Fino al 24 febbraio sarà a Milano, protagonista assoluto di From Portraiture To Fashion, uno dei suoi progetti più ambiziosi e visionari. Una mostra personale, allestita a partire da ottobre 2019 negli spazi di 29 ARTS IN PROGRESS gallery, che ha visto il cambio di opere e di interi allestimenti al fine di celebrare alcuni degli eventi distintivi del calendario milanese come il Vogue Photo Festival, il Fashion Film Festival (entrambi a novembre) e la Milano Fashion Week di febbraio, creando così una sorta di dialogo tra l’autore e le proposte culturali di una delle capitali del design e della moda in Europa. Sembra un tutt’uno con la moda, Rankin. E invece non lo è. Si sente avulso dal contesto, una sorta di alieno finito qui per caso. «Mi piacerebbe andare a una festa di Gucci e sentirmi in sintonia con quell’universo», racconta, «Ma non ci riesco mai fino in fondo. Ho sempre avuto la sensazione di essere un po’ alla periferia dell’industria della moda. Ne sono affascinato, anche se mi rendo conto della sua superficialità, ma non mi sono mai sentito a casa. Forse perché sono un po’ troppo grasso, forse perché non sono particolarmente bello. Non so perché, ma mi sento un estraneo». Lo abbiamo intervistato in vista dell’ultimo atto della sua personale.

Come fa ad essere sempre così diretto e onesto nelle sue interviste?
Dono di natura. Proprio l’altro giorno mi hanno detto «Se avessi intenzione di suicidarti e volessi essere sicuro di morire, dovresti salire in cima al tuo ego e buttarti nel vuoto. Non avresti scampo». Ecco credo che dietro questa mia onestà vi sia una grossa fetta di egocentrismo. Amo troppo il suono della mia voce e credo che le mie opinioni abbiano valore. Per questo è difficile fermarmi quando dico ciò che penso.

Avrà fatto centinaia di interviste. Non si è stufato?
No. Trovo che le interviste assomiglino molto alla terapia, che ho sperimentato in prima persona. Chiacchierare con lei per esempio è un po’ come andare in analisi. Più parlo, più imparo a conoscermi e a maturare.

In cosa è migliorato, secondo lei,  grazie a questa sorta di terapia?
Negli ultimi tempi mi sto impegnando a vedere il mondo da punti di vista diversi dal mio. Non è poco…

Editore, gallerista, documentarista, regista e soprattutto fotografo: di quale di questi ruoli parlerà un giorno con orgoglio ai suoi nipoti?
Tendo a non parlare di ciò che faccio in famiglia. Penso sia importante lasciare il lavoro in studio. Ma se mi sta chiedendo di cosa sono più orgoglioso, le rispondo: di tutto. Di ogni singola collaborazione strette durante la mia carriera. Senza queste non avrei combinato nulla.

Fino a fine febbraio sarà a Milano per From Portraiture To Fashion, un omaggio per immagini al mondo della moda. Cosa pensa di quelli che considerano la fotografia di moda di serie B?
Non ho un’idea precisa. Sono andato al college per diventare un fotografo. Il ​​mio corso al London College of Printing aveva lo scopo di sfornare artisti, critici o insegnanti. Facendo il fotografo d’arte sapevo che le mie opere avrebbero raggiunto poche persone. Io invece volevo farmi conoscere da tutti. Ecco perché ho intrapreso un percorso più commerciale. Per avere più pubblico. Oggi molto è cambiato. Chi poteva immaginare che l’arte sarebbe diventata un prodotto di larga scala?

La moda per lei è arte?
Non del tutto, specialmente oggi che si è troppo mercificata e si trova ovunque. Ma penso che esista arte in ogni forma di creatività. Ho sempre usato la moda, i nudi e soprattutto la fotografia come strumento per comunicare un pensiero, delle idee. 

Il volto è uno dei suoi temi più gettonati. Perché un viso o uno sguardo sono così importanti?
Perché le loro facce della gente sono la cosa più affascinante che c’è. Per essere un bravo ritrattista devi amare il tuo soggetto. Ecco, io non amo i vestiti ma amo i volti, soprattutto gli occhi. So che è un cliché, ma per me gli occhi sono la parte più sexy in assoluto.

Più di un corpo?
Ciò che tiene insieme il mio lavoro sono le idee e le emozioni. Sia il corpo femminile che quello maschile sono soggetti con cui comunico idee. Cerco sempre di sedurre il mio pubblico, ma cerco anche di farli riflettere. Non uso immagini solo per suscitare desiderio. La nudità è un mezzo per raggiungere un fine. Certo, se volete mi potete accusare di essere l’ennesimo bianco di mezza età ossessionato da un culo e dalle tette, ma mi piacerebbe pensare che il mio lavoro sia molto più di questo.

I più bel nudo della storia dell’arte, secondo lei?
Qualunque cosa realizzata da Bernini, Klimt e Lucian Freud. I “Supervisor Sleeping” di Freud sono forse la cosa che amo di più.

Anni fa ha esposto alcuni nudi molto espliciti alla Proud Gallery di Camden London. Ha raccolto 25 anni di altri nudi nel volume #NSFW (ed TeNeues) e ha esplorato l’eros nel progetto X. È ossessionato dal sesso?
No. Ma il nudo mi ha permesso di realizzare veri show. Il progetto alla Proud Gallery, nasceva dall’idea di offrire al soggetto ritratto il totale controllo della situazione. Era lui che decideva come essere fotografato, era lui che aveva il coltello dalla parte del manico. Poi lo scatto veniva modicato insieme. X e #NSFW invece erano un inno al corpo e alla libertà di mostrarlo. Credo che i nudi siano una forma di comunicazione più pura rispetto alla foto di moda, perché non hanno alcuna superficie dietro cui nascondersi. Il sesso c’entra fino a un certo punto. Semmai, penso di essere ossessionato dalla seduzione. Da ciò che ci rende attraenti, da ciò che ci rende desiderabili. Sono domande che mi faccio in continuazione.

Cosa è per lei osceno? C’è qualcosa che la scandalizza più di altre?
Attualmente trovo oscena la politica. E’ osceno chi nega l’emergenza climatica. Mi disgusta quello che stiamo facendo al nostro pianeta. Ma trovo insopportabile anche chi vive soltanto in funzione dei social media.

A proposito, cosa pensa dell’uso che le celebrity fanno dei social?
Riassumo la mia posizione così: se imposti tutto il tuo successo su un programma che fa dei “like” la sua colonna portante, non meravigliarti poi questo stesso programma sarà usato anche per spargere odio e antipatia.

Quanto invece può essere pericoloso l’uso dei filtri?
Può essere pericoloso come lo è qualsiasi cosa che determini una dipendenza. Esattamente alla stessa stregua del gioco d’azzardo, del fumo o delle droghe.

Ha mai usato il suo nome per trarre profitto o per ottenere un favore?
Se per profitto intende prenotare un tavolo al ristorante o entrare in discoteca le dico assolutamente di sì, l’ho usato. Anzi, ho usato il mio nome anche per ottenere sconti nei negozi quando  faccio shopping. Ma, più in generale, ho sempre avuto una visione altruistica del concetto di favore. Quando mi capita di aiutare qualcuno lo vedo come un investimento verso il futuro. Un po’ come se seminassi qualcosa di cui presto o tardi vedrò i frutti. Quando hai la fortuna di fare ciò che ami, dovresti essere più predisposto ad aiutare gli altri, senza per forza averne un tornaconto.

Ha creato magazine come Dazed & Confused e Hunger. Ma il mondo dell’editoria è cambiato moltissimo. Ha ancora senso stampare riviste di carta?
Sì. Amo la carta. I libri, i giornali vivranno per sempre. Perché puoi metterli in uno scaffale, dimenticartene e poi ritrovarli anni dopo. Io stesso realizzo riviste che possano essere di ispirazione per gli altri. Per sperimentare e trovare nuovi percorsi. Soprattutto in un tempo, come quello di oggi, abituato a bruciare idee e cose senza sosta. 

È vero che odia il suo compleanno?
Sì. Mi è sempre sembrato ipocrita e falso dover celebrare me stesso ogni volta che compio gli anni. Inoltre le confesso che odio anche ricevere regali. Preferisco farli.

Ha ritratto centinaia di persone: da David Bowie alla Regina Elisabetta II, da Kate Moss a Madonna. C’è qualcuno che manca all’appello?
Sì: Gesù e Buddha.

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