Cultura | Fumetti

Memorie d’Ucraina

Nel suo Quaderni ucraini – Diario di un’invasione, Igort disegna un reportage sentimentale lontano dall'epica e dalla gloria posticce del racconto di guerra.

di Francesco Gerardi

Igort ha scritto i suoi Quaderni per raccontare gli ucraini, non l’Ucraina né la guerra in Ucraina. Immagino sia la sua maniera di sfuggire all’astrazione che ogni guerra impone e che trasforma tutto nell’oggetto di un ragionamento: le persone, le cose, i luoghi, le parole, i simboli in guerra assumono un significato diverso, diventano parte di un mondo prima distante e poi astratto, per questo comprensibile e persino ragionabile. Quaderni ucraini – Diario di un’invasione (uscito il 4 ottobre per Oblomov Edizioni) è invece un racconto sentimentale degli ucraini, nel senso migliore della parola “sentimentale”. Nel suo quaderno Igort ha prima segnato e poi disegnato momenti di vita interiore di chi «è costretto a prendere parte a una guerra. Niente di più, niente di meno».

Lo ha scritto su Facebook lo scorso 13 settembre mostrando la copertina del suo nuovo graphic novel/reportage, un collage tra il Rossellini della Trilogia della guerra, le foto di Robert Capa e il modo peculiare suo, di Igort, di raccontare i Paesi attraverso pagine-cartoline fatte di testi essenziali e immagini quasi immobili. Un collage in cui ha messo tutto ciò che amici, conoscenti e testimoni gli hanno raccontato in mesi di conversazioni telefoniche: anziani disperati, bambini abbandonati, passaporti, soldati, macerie, Zeta. Le persone, gli oggetti, i luoghi, le parole, i simboli, «le storie dolenti» che compongono un’opera che il suo autore ha descritto come né prevista né immaginata. E neanche desiderata, prima del 24 febbraio.

Di Europa dell’est, di Russia e di Ucraina Igort si è già occupato in passato. Diario di un’invasione è la seconda, imprevista, parte di un racconto cominciato nel 2010 con gli altri Quaderni ucraini, quelli in cui si raccontavano Le radici del conflitto, la tirannia sovietica e l’Holodomor, «il genocidio che ancora oggi fatica a essere ricordato». Nel mezzo, tra Le radici del conflitto e Diario di un’invasione, ci sono stati i Quaderni russi – Sulle tracce di Anna Politkovskaja. Quando ho saputo che Igort stava lavorando a un secondo volume dei Quaderni ucraini, nella mia mente ho subito sistemato questo nuovo libro accanto agli altri due, come fosse l’ovvio completamento di una trilogia e lo scontato finale di una tragedia. La stessa storia raccontata da punti diversi nello spazio e nel tempo.

«No, i tre Quaderni non raccontano la stessa storia», spiega lui stesso, «perché l’Ucraina ha la sua, di storia». Ascoltando queste parole, mi sono ricordato di quello che aveva scritto sulla quarta di copertina delle Radici del conflitto: «Al principio l’Ucraina era per me qualcosa di indistinto, una nuvola appartenente al firmamento sovietico». Mi sono reso conto che nella mia mente persisteva lo stesso errore che lui aveva cercato di correggere con i primi Quaderni. Forse lo stesso errore che oggi impedisce a molti di capire davvero la resistenza ucraina, lo stesso che permette alla Russia di usare pretesti, appunto, storici – il Russkij Mir, il mito imperialista secondo il quale ovunque parli un russofono, quella sia terra russa – per negare all’Ucraina il diritto all’autodeterminazione, alla sopravvivenza, all’esistenza.

È anche per questo che Igort non vuole parlare di guerra ma di ucraini: perché parlare della guerra significa inevitabilmente parlare della Russia e parlare della Russia significa ancora una volta negare agli ucraini la loro storia. O meglio: negare alle persone comuni le loro storie piccole, come le definisce lui. Storie raccontate al telefono, mentre i vetri delle finestre vibrano colpiti dall’onda d’urto di un missile caduto abbastanza lontano ma non così lontano. Storie raccontate quando è possibile, perché la guerra spezzetta il tempo e la mente in un’infinità di urgenze e necessità, ansie e paure che rendono quasi impossibile la testimonianza.

Nel Diario dell’invasione sono raccontati 98 giorni di guerra che oggi sappiamo essere stati soltanto i primi 98 giorni di guerra. È inevitabile moltiplicare le storie conservate in questi Quaderni ucraini per tutti i giorni passati dal 12 settembre – giorno in cui Igort ha finito di disegnare – a oggi. Provando questa matematica della devastazione si capisce subito che il tentativo è futile, che le guerre sono come delle funzioni esponenziali, sono simili a cellule cancerose che si riproducono con un efficientissimo processo di mitosi: ci mettono pochissimo a diventare immense, a occupare ogni spazio, a coprire ogni cosa. Leggendo questo libro, infatti, si avverte quasi una sensazione di nausea osservando la velocità con la quale la guerra diventa «spettacolo tristemente consueto». I primi giorni di racconti sono frenetici: sono le fughe verso il confine con la Polonia a bordo di minivan da dodici posti schiacciati dal peso di venti passeggeri; sono le fughe in senso opposto, da fuori a dentro, di chi ha genitori anziani da andare a prendere; sono le corse nelle cantine quando i missili cominciano a cadere, e chi non ha una cantina si chiude negli armadi sperando che cappotti e coperte facciano da scudo; sono la legge marziale che impedisce agli uomini in età da leva di lasciare il Paese e sono le infermiere prelevate dagli ospedali cittadini e messe a lavorare in quelli da campo.

Scorrendo le pagine dei Quaderni ucraini, giorno dopo giorno il diario dell’invasione diventa testimonianza degli assediati. Uno «spettacolo tristemente consueto» in cui alla frenesia del terrore si sostituisce la stasi della disperazione. Al giorno 53 del conflitto, c’è un uomo in una casetta di Zaporizhzhya che continua a fare un gran fracasso. I vicini si lamentano. La moglie dell’uomo, Olena, si scusa. «Anton ha spaccato ogni mobile della casa. Dice che sa quel che fa. Non dorme più. È ossessionato». Anton si è convinto che sostituendo il vetro delle finestre con il legno dei mobili, la sua casa resisterà. Tutti gli fanno notare che la cannonata di un carrarmato infrange vetro e legno alla stessa maniera, ma lui continua col suo lavoro. Al giorno 79 la concertista Tatiana Monko scopre una mina VOG 25P nel pianoforte al quale di solito si esercita sua figlia Darinka, che ha dieci anni: i russi avevano precedentemente razziato e vandalizzato la casa, ma avevano lasciato intatto il pianoforte, una pietà che Tatiana sapeva non essere plausibile. Al giorno 98, il padre di Yulia atterra a Fiumicino: è riuscito a salvarsi e ha raggiunto le figlie in Italia. All’aeroporto la prima cosa che fa è mostrare a Yulia, che è andata a prenderlo, una scatoletta. È carne in scatola, parte degli “aiuti umanitari” che i russi distribuiscono nei territori ucraini occupati. «Piuttosto che mangiare il cibo degli invasori ha preferito il digiuno». Le persone, le cose, i luoghi, le parole, i simboli in guerra assumono un significato diverso: i mobili di casa diventano barricate, un pianoforte un’arma, una scatoletta di carne in gelatina uno sfregio.

All’inizio e alla fine del Diario dell’invasione, Igort ripete la ragione che lo ha convinto che queste fossero le storie giuste da raccontare per far capire cosa stia succedendo in Ucraina. Ha deciso così per evitare le tentazioni – dell’epica, della gloria – in cui quasi sempre incappa chi decide di raccontare la guerra. E invece, ripete all’inizio e alla fine di questi nuovi Quaderni Ucraini, «una guerra è sempre e solo una sporca guerra. Non c’è epica, non c’è gloria, solo miseria». E questa sta tutta nelle storie piccole e dolenti di chi è costretto a prendervi parte.