Attualità

T’amo, pio robottone

Sapreste mai riconoscere una poesia scritta da un essere umano da quella creata da un algoritmo? Un esperimento online sulla creatività, le fredde macchine e noi umani nel mezzo.

di Pietro Minto

Lo scorso dicembre il giornalista del Time Michael Scherer ricevette una chiamata da un numero sconosciuto. A parlare era una giovane donna che voleva offrirgli un’imperdibile assicurazione sanitaria. All’inizio sembrò una normale vendita telefonica ma dopo le prime presentazioni e qualche domanda, Scherer capì che qualcosa non andava. Il tono della signorina era strano, quello che diceva – e come lo diceva – ancora di più. Così il reporter, sapendo che molte aziende utilizzano “bot” telefonici, software programmati per intrattenere conversazioni realistiche, decise di assicurarsi di star parlando con un essere umano. “Sembri davvero un robot”, le disse. Silenzio. “Sono una persona vera”, rispose la voce. “Ne sei sicura?” “Certo.”
 

 
Vista l’insistenza dell’umano, la voce, essendo creata da un bot, entrò in quell’area emozionale che potremmo definire “l’imbarazzo della macchina”. Il dialogo si fece presto piuttosto grottesco, con la voce computerizzata che tentava di assicurare il suo cliente, pur rifiutando di pronunciare le parole magiche: “Non sono un robot”. Per fortuna Scherer stava registrando il tutto, grazie a lui sappiamo che quei robot sanno essere molto strambi ma sono incapaci di dire le bugie.
 

 
La disavventura del giornalista dimostra che l’invasione robotica è già avvenuta in molti gangli della nostra vita sociale ed è spesso non dichiarata, con programmi che si spacciano per umani con altri umani, spesso in modo convincente. Non sono solo nei nostri telefoni; in altri casi producono libri con il servizio print on demand di Amazon, pescando voci da Wikipedia e altri siti e stampandole su carta: il masterpiece del genere “libri-robotici-stampati-da-robot” è senz’altro Celebrities With Big Dicks, un tomo che è esattamente quello che sembra, un compendio di Vip dai peni molto grandi accompagnato da una selezione di voci a tema pescate dalla nota enciclopedia online (tra i lemmi, “penis”, “human penis size”, “Grigori Rasputin”).

Questi libri fatti di Wikipedia e spesso editati da algoritmi non sono alla ricerca di lettori: esistono in quel limbo editoriale scoperto dal print on demand; possono diventare best seller oppure non trovare nemmeno un acquirente: poco importa a queste macchine del destino dell’editoria.

Ma non tutte le macchine sono così ciniche. Ne esistono di più delicate e sensibili. Alcune di queste scrivono addirittura poesie. “Bot or not?” è il progetto di due giovani studenti australiani, Oscar Schwartz e Benjamin Laird, un esperimento crudele con il quale gli utenti, dopo aver letto una poesia proposta dal sito, devono indovinare se l’autore è un essere umano o un bot. Dopo aver provato – fallendo – a vincere il dannato meccanismo del giochetto, ho chiesto lumi al suo autore. «Immagina la ricetta di una torta» ha spiegato Schwartz a Studio.

«Una ricetta è fatta di istruzioni e un po’ di ingredienti, spiega all’umano cosa fare di questi ingredienti attraverso un tot di istruzioni onde di raggiungere un certo risultato. Una ricetta di una torta, in un certo senso, è come un algoritmo che genera una torta. Un algoritmo che produce poesia funziona allo stesso modo: fornisce una serie d’istruzioni e spiega al computer cosa farci in modo da raggiungere un dato risultato (la poesia)».

L’esperimento ha finito per ospitare una piccola comunità di robot-poeti: chiunque può spedire un componimento a patto che sia accompagnato dall’algoritmo che l’ha creato. In tal modo, quindi, «[l]’autorialità della poesia non è attribuita a qualche computer ma al metodo che è stato usato dalla macchina».

Il bot che ha tentato di vendere un’assicurazione al giornalista del Time ha quindi fallito il test di Turing perché la controparte umana l’ha smascherato

Il bot telefonista, uno strambo libro sui peni dei Vip e queste poesie hanno una caratteristica in comune: sono tre prodotti che potrebbero passare per “umani” ma non contengono alcun indizio diretto della loro falsità robotica.

Quando si parla dell’ambiguità atroce di una macchina che si spaccia per un essere vivente, è inevitabile tornare ad Alan Turing. Nel 1950 il matematico britannico tra i padri dell’informatica pubblicò sulla rivista Mind un articolo in cui spiegava il funzionamento del “Test di Turing”, criterio per determinare se una macchina sia in grado di pensare. Immaginate un uomo e una donna in una stanza e una terza persona in un’altra stanza, intenta a capire quale delle due prime persone sia la donna e l’uomo; essa non può vederli né sentirli e una delle due persone nell’altra stanza, l’uomo per esempio, ha il compito di creare confusione e mandarlo fuori strada.

Il “Test di Turing” è più o meno la stessa cosa, solo che una delle due persone è una macchina che si spaccia per un nostro simile. Per essere ancora più chiari: il bot che ha tentato di vendere un’assicurazione al giornalista del Time ha fallito il suo test di Turing perché la controparte umana l’ha smascherato.

Ecco, “bot or not” è un Test di Turing che vuole rispondere alla domanda “ma i robot possono scrivere poesie?” Un test che – e potete provare voi stessi – non è poi così facile. Prendiamo questo componimento, per esempio:

Behold, and wake and stay to feel, whom I
Told on, so, and sought the morning of thine
Alone. We must dig in thought, a tender
Awe name whom thou wert, the day say. Yet on

The casement again, replete disappears
Meet outward great verse distills thou wert doom’d
To run at least until the death-hour a
Blest ‘tis my heart and higher images

I look, or shalt find me from the world on
To stand, a tear hath the pathway easy?
Why is a gross, who the roof. If he speaks
The wet wings not lame upon so should not

Your idols clearly! All the stormy; miltiades
Flattered be than mine eyes, and bygone.

Un austero poeta inglese… oppure una macchina? La risposta esatta è la seconda. Ci sono altri casi in cui i versi sono talmente folli da passare per un delirio computerizzato e invece sono opera di un grande autore del Novecento. È la poesia, bellezza.

E se fosse proprio la poesia in sé – con le sue infinite possibilità espressive e la capacità di andare oltre le regole o il senso comune – ad essere terreno da sbarco ideale per l’esercito dei bot? Secondo Schwartz «alcuni esperimenti sulla forma del testo del XX secolo, soprattutto la pratica radicale dell’avanguardia, ha permesso a un certo tipo di poesia di essere replicata da un algoritmo. Alcuni poeti dello scorso secolo vedevano come una virtù scrivere come una macchina: artisti come John Cage e Jackson Mac Low lo ritenevano il modo migliore per eliminare ego e personalità dalle loro creazioni».

Ma come ne esce la creatività da questa giungla? Umiliata dal poetare di una macchina o celebrata dalla complessità dell’algoritmo compilato dagli umani? Quello che i due australiani volevano capire aveva a che fare proprio con questo, la ricerca di risposta alla domanda: “può emergere creatività da una serie di regole fisse?” La risposta, dicono, deve ancora arrivare anche se parlare di “creatività” algoritmica «va contro lo spirito di Turing, che mira a osservare solo il prodotto», spiega lo studente. Se il prodotto finale, la poesia, sembra a molti il risultato di un percorso creativo, se stimola in loro forti reazioni ed emozioni, se li fa sentire meno soli, più umani, più empatici, che importanza ha se l’algoritmo che l’ha creato è o non è “creativo”?». «Penso che la creatività sia solo un concetto emozionale. Pensiamo che qualcosa sia creativo o geniale solo quando non sappiamo com’è stata fatto. Quando scopriamo il processo che c’è dietro, allora l’oggetto smette di sembrarci creativo, diventa meccanico. Il test di Turing è fatto proprio per abbattere questi pregiudizi».

Tornando però alla metafora della ricetta di una torta, la differenza principale tra umani e algoritmi è che i primi commetteno errori, mentre i secondi seguono sempre le istruzioni precisamente come vengono date, al meglio. Noi possiamo esagerare con lo zucchero, dimenticarci di accendere il forno o rovesciarle la torta mentre la portiamo in tavola. Non ho mai visto un computer preparare una torta ma possiamo immaginare sia molto di più perfettino di noi sbagliatissimi animali.

Anche in poesia, quindi, la scrittura robotica è perfettamente basata sull’algoritmo e sui dati forniti alla macchina, e non scivola mai in imprecisioni o incidenti. Non esistono nemmeno quel tipo di imperfezioni che possono dare la scossa alla creatività. Artisti come Cage hanno provato per anni a vincere questa umanità di fondo, fallendo. E non a caso perché, grazie al cielo, è per noi impossibile raggiungere l’algida perfezione di un algoritmo: «La cosa più interessante», conclude Schwartz, «è osservare gli errori e le deviazioni nella scrittura umana perché penso che sia in questi errori, negli sbagli umani, che si possa trovare quello che chiamiamo “stile”».

 

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Immagine: una Musa visita il poeta inglese Lord Byron in un’opera del 1810 (Hulton Archive / Getty Images)