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I poeti di Instagram fanno male alla poesia?

Rupi Kaur è la più famosa, ma non l'unica: perché gli autori di brevi componimenti stanno vivendo un momento di gloria sul social.

11 Settembre 2018

Era la primavera del 2017 quando mi sono trovato davanti, per la prima volta, a una “poesia di Instagram”. Un’amica mi mandò un post di Nayyriah Waheed, scrivendo: «La conosci? È interessante». Non avevo la minima idea del fenomeno ma c’è una cosa che conosco bene, della mia amica: non le piace la poesia. A essere sincero, dopo aver letto il post, che conteneva soltanto alcune frasi su uno sfondo bianco sporco, non ho pensato alla parola “poesia”, ma a qualcosa come “ah, sì, una bella frase”. Non ricordo quale fosse esattamente, poteva essere quella che dice: «things. that should be asked. / often. / in every type of. / relationship: / how is your heart. / is your breath happy here. / do you feel free.», oppure un’altra, simile: «you will be lost and unlost. over and / over again. relax love. you were meant / to be this glorious. epic. story.» In quegli stessi giorni, Milk and Honey, il primo libro della “Instagram poet” Rupi Kaur toccava i due milioni di copie vendute, mentre di lì a cinque mesi sarebbe uscito il suo secondo, The Sun and Her Flowers. Si era già consumata, ormai da due anni, anche una disputa tra le due poetesse, con la Waheed che accusava Kaur di plagio. L’accusa non avrebbe avuto seguito. Oggi Nayyirrah Waheed ha oltre 600mila follower, Rupi Kaur oltre 3 milioni.

Non sono le uniche rappresentanti del movimento “poetico” su Instagram: tra le autrici e gli autori più di successo ci sono Christopher Poindexter, 350mila follower, Yrsa Daley-Ward, 150mila, Atticus, 820mila, Lang Leav, 470mila, e molti altri con audience ragguardevoli, ma sotto quota centomila: pavana, Amanda Torroni, Marisa B. Crane, e così via. La loro produzione ha delle linee in comune, pur con alcune differenze: si tratta di componimenti brevi, la maggior parte deve essere contenuta nello spazio quadrato di un post Instagram e deve essere letta facilmente, senza bisogno di ingrandire. Sono scritte su uno sfondo nero, o bianco, o di finta carta, con caratteri che richiamano una macchina da scrivere. Parlano di amore e fiducia in se stessi, di relazioni finite, di affetto, di traumi. Una delle poesie più apprezzate di Rupi Kaur, con 250mila like, recita: «like rainbow / after the rain / joy will reveal itself / after sorrow».

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L’origine del fenomeno, senza andare indietro di troppi anni, è facilmente ritrovabile in Tumblr, un social network che tra le molte anime aveva anche sviluppato molto quella citazionistica: frasi motivazionali giustapposte su foreste, catene montuose, campi innevati. Oggi quegli sfondi sono spariti in favore del monocromo, e a fianco alle poesie, tra un post e l’altro, non è raro trovare una foto del poeta o della poetessa: per rimanere nella lingua poetica, Rupi Kaur utilizza lo schema A-B-A-B, ovvero una poesia, una foto, una poesia, una foto, che grazie alla griglia di Instagram, divisa in tre colonne, rende la sua home un piacevole mosaico. Ci sono leggere differenze tra un poeta e l’altro: ci sono quelli, come Lang Leav, che trattano quasi soltanto di amore, con una completa e scoraggiante assenza di complessità: «He only wants you / when he can’t have you, / so why don’t you give him / what he wants».

Rupi Kaur ha fatto sue invece le battaglie del femminismo contemporaneo, tradotte in un gergo semplice e diretto a un pubblico young adult, ma la scelta di un tema urgente non trasforma un componimento mediocre in un capolavoro, e il confronto di un componimento di Kaur (che ne so, «the right one does not / stand in your way / they make space for you / to step forward») con uno di Gwendolyn Brooks (1917-2000), un’autrice che scrisse spesso di tematiche politiche legate alla condizione della comunità afro-americana, è impietoso. La musicalità, il ritmo, l’esplosione del climax. Una delle sue opere più famose è “We Real Cool”: «We real cool. We / Left school. We // Lurk late. We / Strike straight. We // Sing sin. We / Thin gin. We // Jazz June. We / Die soon».

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È difficile descrivere cosa sia poesia e cosa non lo sia, o cosa sia considerabile come letteratura e cosa no, e ne abbiamo già parlato abbastanza e futilmente quando l’Accademia di Svezia decise di assegnare il Nobel per la letteratura a un cantante. Charles Simic, uno dei più importanti poeti contemporanei, in un articolo di qualche anno fa sulla New York Review of Books paragonava le sue poesie al gioco degli scacchi: «La loro riuscita dipende da come parole e immagini vengono disposte nell’ordine esatto, e la loro fine deve avere l’ineluttabilità e l’effetto sorpresa di un elegante scacco matto». Franco Fortini, poeta e critico letterario italiano, disse che «una poesia preseta prima di tutto la propria dimensione fonico-ritmica». Quando questo non accade, aggiungeva citando Pavese, ci si concentra invece sulla storia, sul racconto della vicenda, narrata con una cadenza da cantastorie. I componimenti di Atticus o Rupi Kaur non hanno niente di tutto questo ma attingono, piuttosto, dal mondo dell’advertising. A inizio settembre Nike ha rivelato la nuova campagna pubblicitaria per celebrare i trent’anni del claim “Just Do It”. Tra i protagonisti c’è l’ex giocatore di football americano Colin Kaepernick, escluso dalla National football league per la sua scelta di inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale (in protesta contro la violenza dello Stato sui cittadini afroamericani), e lo slogan della campagna recita: «Believe in something. Even if it means sacrificing everything». Se sotto ci fosse scritto “Rupi Kaur” nessuno si stupirebbe.«Via via che leggevo centinaia di poesie», ha scritto sul Guardian la critica Michelle Dean, «ho iniziato a chiedermi se dietro ci fossero delle persone oppure un algoritmo». Accettiamo di chiamarle poesie, dimentichiamo l’estrema semplicità della lingua, la mancanza di ricerca terminologica, l’assenza di ritmo, di figure retoriche, di una visione che vada oltre il sé e la propria personale sfera affettiva, rimane la sensazione che Rupi Kaur, Nayyirah Waheed, Christopher Poindexter, Lang Leav e Atticus (ma non, ad esempio, Yrsa Daley Ward, ben più matura) siano interscambiabili. Per questo, ho pensato, l’abbondanza di ritratti degli autori stessi a fianco alle “poesie, in pose adatte a Instagram, come quelle di un fashion influencer. Se non si può riconoscere un poeta dalla voce, lo si riconoscerà come si fa con chiunque altro: con una fotografia.

Eppure, la poesia “accademica” o “tradizionale” dovrebbe preoccuparsi per la poesia “di Instagram”? No, allo stesso modo per cui Jonathan Franzen non dovrebbe preoccuparsi di Colpa delle stelle. Dovrebbe sperare, al contrario, di poterne beneficiare? Penso che la risposta debba essere sempre no: un lettore che si abitui alla poetica di Poindexter («I think too much / I feel too much») difficilmente riuscirebbe a passare con naturalezza alla Achmatova, per il semplice fatto che si tratta di due codici sintattici completamente diversi. Naturalmente, a livello di promozione dei propri contenuti, ci sarebbe da imparare o imitare, non soltanto per gli editori di poesia o per i poeti, ma per l’intera editoria. Innovare la forma per rendere più forte la sostanza, e non con le foto di colazioni e libri scattati dall’alto, ma con qualcosa di più originale. Come ha fatto Rupi Kaur annunciando, città per città, con un claim diverso a ogni tappa, il suo ultimo tour di presentazioni in America. «Boston», c’è scritto sopra un disegno di lei che indossa una maglietta dei Red Sox, con il font della squadra di baseball, «it’s a date». Magari prendendo ispirazione dalle opere dei poeti di Instagram, e trasformandole di nuovo in quella che sembra essere la loro essenza originale, il marketing.

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