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Parthenope, non si può essere felici nella città più bella del mondo

Oltre a incarnare la giovinezza, il film di Sorrentino rappresenta la città di cui tutti vogliono godere, ma che nessuno ama abbastanza per assumersene la responsabilità.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Sin dall’Uomo in più, e poi con La grande bellezza e È stata la mano di Dio, e adesso ancora con Parthenope, Paolo Sorrentino continua a rincorrere per vie traverse il desiderio irrealizzato di portare sugli schermi il grande romanzo di Raffaele La Capria, Ferito a morte; lo scrittore e il regista tentarono di collaborare a una trasposizione del libro, ma rinunciarono, e La Capria riferì che «a Napoli certi personaggi rischiavano di diventare macchiette»: un limite che non sembra impensierire troppo il regista, visto che in questo suo ultimo videoclippone circense sfilano – oltre ai vitelloni tristi di Posillipo – vescovi farabutti, attrici col volto distrutto dal botox, camorristi superstar, comandanti di marina, carrozze d’oro trasportate via mare e perfino un gigante d’acqua e sale che è l’incarnazione umana del mare, e sembra uscito dalle fiabe di Basile.

E in effetti a me Parthenope non è sembrata la storia di formazione dietro a cui si nasconde – e che proprio come nel romanzo di La Capria, o nella saga della Ferrante, abbraccia la vita della protagonista della giovinezza alla vecchiaia (quando diventa Stefania Sandrelli) – ma una fiaba allegorica, dove Parthenope (l’esordiente milanese Celeste Dalla Porta) è allo stesso tempo la gioventù, la bellezza e la città di Napoli (questo è un film pieno di tuffi all’indietro, dove in mare si nasce, si fa l’amore e si muore).

La rassegna della vita della protagonista – il rapporto quasi incestuoso con il fratello, la sua idea interessante di concedersi solo ai più abietti dei corteggiatori, fino alla carriera accademica non a caso come antropologa – sono tutti espedienti funzionali a tenere insieme un quadro trans-temporale e stratificato di Napoli, dove convivono in un folklore voluto rituali mafiosi, miracoli mestruali, rampolli che gridano “mamma”, vecchie che nei bassi coccolano pantegane, camion che nel 1973 spruzzano un liquido anti-colera e la nave-ultrà che fu avvistata per le strade durante la festa del terzo scudetto.

Se penso davvero che la protagonista sia una riuscita allegoria, non è vero quel che ho detto sul fatto che la sua trama non è importante. Parthenope è una a cui piace far uso della sua bellezza, ed è una che è vera sia quando legge i racconti tristi di Cheever che quando indossa nuda il tesoro di San Gennaro. Parthenope è una che vuole essere, sopra ogni cosa, e nonostante i miliardari che la seguono in elicottero offrendole frutti di mare, una ragazza con la risposta pronta. E anche l’intera sceneggiatura nel bene e nel male è, come il parlare di Parthenope, una sequela di frasi ad effetto, così fitte che alla fine non distingui più le sparate dalle perle. Ma non importa tanto distinguerle. Come dice una donna appassita a Parthenope: è importante avere la risposta pronta, la risposta pronta è per tutti gli uomini che ti hanno offeso. E siccome sei bella, saranno tanti.

Sì, sono tanti, quasi tutti. Tranne gli unici due che non sono rapaci con lei, gli unici che lei amerebbe davvero, ma che la tengono a distanza: il vecchio poeta americano alcolizzato interpretato da Gary Oldman (che si rivela essere proprio John Cheever) e che la cattura con un verso sulla disperazione dei giovani; e il professore brutto, intelligente e asessuato che è Silvio Orlando. E le fa tutta una tirata su come solo quando finiscono la giovinezza, l’amore e il desiderio si può veramente vedere, che poi è il lavoro dell’antropologa; ma anche del regista.

Non so se davvero Parthenope, oltre a incarnare lo splendore vorace della giovinezza, rappresenta anche Napoli: la città vitale e acquatica di cui tutti vogliono godere, ma che nessuno ama abbastanza per assumersene la responsabilità. Ma checché ne dica Sorrentino, il film è un lungo discorso con e su Napoli. A un certo punto, un’attrice interpretata da Luisa Ranieri, emigrata e tornata in città dietro lauto compenso, impazzisce durante un discorso ai suoi fan napoletani e urla che i napoletani fanno tutti schifo, si lagnano di tutto e si piangono addosso, ma sono loro il vero cancro della città. È un momento del film notevole. Ma non è questo il pensiero di Sorrentino, e forse nemmeno quello di tutti gli altri che sono fuggiti via: Parthenope, la cui parabola la porterà lontana, ma anche Jep Gambardella, Lenù dell’Amica Geniale o il Massimo de Luca di Ferito a Morte.

Napoli per lui (per loro) è bella come una sirena di diciotto anni. Il problema è quello espresso da Raimondo, il fratello triste di Parthenope, che rappresenta pure l’intero universo di La Capria: «Come si fa a essere felici, nel posto più bello del mondo?». Ecco la frase ad effetto del film che salverei più di tutte. Che poi è anche la dedica di un uomo alla sua città.