Cultura | Videogiochi

Pac-Man non è soltanto un gioco

Il videogioco più famoso di sempre compie 40 anni.

di Germano D'Acquisto

Pac-Man compie quarant’anni. Quando è arrivato nelle rudimentali consolle dei primi anni Ottanta, non c’era nulla di simile in giro. Gli altri videogiochi dell’epoca erano un continuo sparare a mostri, catturare astronavi e distruggere alieni predatori. Si chiamavano Space Invaders, Asteroids e Galaxian. Mentre lui sembrava quasi un cartoon in miniatura. E aveva tutto per sfondare. C’era il protagonista, una palla gialla piuttosto bulimica; c’era il cibo da divorare senza sosta e c’erano anche Blinky, Pinky, Inky e Clyde, quattro fantasmini dai grandi occhi tristi.

Dal giorno in cui è sbarcato sul mercato, era il 22 maggio del 1980, niente è più stato uguale. Perché Pac-Man non è soltanto un gioco, ma molto di più. È una metafora diretta e pungente del capitalismo contemporaneo. È l’allegoria più incisiva del nostro quotidiano, sempre vissuto di corsa. Sempre alla continua ricerca di qualcosa da conquistare. Fino all’infinito. Proprio come il videogame, che in origine di livelli ne avrebbe dovuti avere proprio infiniti, ma che invece ne conterà solo duecentocinquantasei per colpa di un bug. Insomma, Karl Marx non avrebbe potuto chiedere di meglio.

Eppure la genesi del gioco è curiosa e mixa mito a realtà, come si conviene agli eventi che cambiano la storia. Nella testa del suo creatore, il giapponese Tohru Iwatami, programmatore della Namco, doveva essere un semplice passatempo. Il designer lavorava in azienda dal 1977 e ai videogame preferiva di gran lunga i flipper. L’ispirazione, almeno così narra la leggenda, pare gli sia venuta una sera in pizzeria. Dopo aver tagliato la prima fetta della sua Margherita, avrebbe notato che la forma che restava sul piatto ricordava quella di un cerchio con la bocca spalancata. Da qui l’idea di lavorare al progetto, che in pochi anni si trasformerà nel videogame più famoso di sempre. Un videogame nato soprattutto per piacere al pubblico femminile. «Tutti i giochi per computer dell’epoca erano violenti», ha raccontato Iwatani nel 1986. «Non c’era nulla che potesse piacere a chiunque, soprattutto alle donne. Volevo inventarmi qualcosa che funzionasse proprio per loro».

«Tutti i giochi per computer dell’epoca erano violenti. Non c’era nulla che potesse piacere a chiunque, soprattutto alle donne. Volevo inventarmi qualcosa che funzionasse proprio per loro».

Le regole sono semplicissime. La superstar è, come detto, Pac-Man, affamatissima sfera gialla che gira in lungo e in largo dentro un labirinto in cui deve inghiottire frutti, premi e oggetti d’ogni tipo. L’obbiettivo è ingurgitare tutti i bocconi presenti nella schermata e sfuggire dalle grinfie di quattro fantasmini, in modo da poter passare al livello successivo. Il tutto, condito da una musica di sottofondo sincopata, quasi ipnotica. L’ideale per far alzare il livello di adrenalina nei giocatori.

Ci sono voluti diciotto mesi prima di sviluppare il software, che in origine avrebbe dovuto chiamarsi Puck-Man (in giapponese “puck-puck” significa sgranocchiare), ma che successivamente venne cambiato in Pac-Man per poter essere venduto negli Stati Uniti, dove la parola “puck” era troppo simile a “fuck”. Il designer giapponese confessò di essersi ispirato ai manga che leggeva da bambino, mentre i fantasmini erano un’evoluzione in salsa pixel del cartoon americano Casper. Pare che la sfida più complessa per il team di programmatori sia stata gestire proprio il comportamento dei quattro piccoli spettri. Perché ognuno di loro fa sempre cose diverse: c’è quello che insegue e basta e quello che inizialmente insegue e poi cambia bruscamente direzione. «Questo è il vero cuore del gioco», ha spiegato Iwatami. «L’intelligenza artificiale di allora mi colpisce ancora oggi».

Dopo i primi diciotto mesi dall’uscita nei negozi, la Namco riuscì a vendere oltre trecentocinquantamila consolle arcade, facendo impennare la colonnina dei guadagni a un miliardo di dollari. Si è calcolato che solo nel 1981 negli Usa vennero giocate duecentocinquanta milioni di partite. Tanto che nella città di Des Plaines, nell’Illinois, furono addirittura vietati i videogiochi ai minori di 21 anni a meno che non fossero accompagnati dai genitori. Una vera e propria febbre collettiva. Ma a fronte di tutti quei soldi e di quell’incredibile successo, Iwatami non prese un solo yen. Non ci furono ricompense. Nessun bonus, nessuna citazione ufficiale.

Ma il trionfo fu totale anche nel campo del merchandising. La silhouette di Pac-Man era ovunque: nelle t-shirt, nelle pubblicità, nella moda, nei film, sulla cover del Time, nell’arte contemporanea (il software originale è attualmente esposto al MoMA di New York). Nel 1982 Hanna-Barbera crearono un programma tv chiamato Pac-Man Fever (trasmesso in Italia fino all’83). Nello stesso anno il brano di Jerry Buckner e Gary Garcia intitolato proprio Pac-Man Fever raggiunse il nono posto nella classifica dei 100 migliori pezzi di Billboard. Negli ultimi quattro decenni sono stati sfornati numerosissimi spin-off come Pac-Man Plus, Professor Pac-Man, Junior Pac-Man, Pac-Land, Pac-Man World e Pac-Pix. Nel 2005 Pac-Man è entrato nel Guinness World Record come videogioco commerciale di maggior successo della storia. Mentre nel 2008, il Davie Brown Celebrity Index ha rilevato che il 94% dei consumatori americani riconosceva la sfera gialla più di quanto non riconoscesse stelle planetarie come Leonardo DiCaprio, Brad Pitt o Lady Gaga.

Dieci anni fa, in occasione del trentesimo anniversario, Google ha deciso di piazzare sulla sua homepage un doodle giocabile online dedicato proprio al videogame. Il successo fu tale che secondo uno studio della stessa multinazionale il gioco avrebbe fatto perdere in un solo giorno quasi cinque milioni di ore di lavoro. Pochi prodotti sono riusciti a raccontare la nostra società in modo più chiaro e essenziale. «I videogiochi non influenzano i bambini», aveva detto l’impiegato della Nintendo, Kristian Wilson nell’ormai lontano 1989. «Se Pac-Man ci avesse davvero influenzato da piccoli, ora saremmo tutti intenti a girare in sale buie, masticando pillole magiche e ascoltando musica elettronica ripetitiva». Probabilmente Kristian Wilson si sbagliava. Perché il nostro quotidiano non è poi così lontano da quello raccontato dalla creatura di Tohru Iwatami.