Carolina Cavalli e Benedetta Porcaroli, rispettivamente regista e attrice de Il rapimento di Arabella, al cinema dal 5 dicembre, sono le protagoniste della nostra nuova digital cover.
Orfeo di Virgilio Villoresi, scritto con Alberto Fornari e con la collaborazione di Marco Missiroli, al cinema dal 27 novembre con Double Line, è un film fenomenale. È l’opera prima di Villoresi, è tratto da Poema a fumetti di Dino Buzzati (Mondadori) e ne rispetta pienamente tanto la portata narrativa quanto la potenza visiva. E in questo senso diventa fondamentale l’artigianalità di Orfeo, il suo essere concreto, materiale, mai materialistico, sempre denso, presente e riscontrabile. Villoresi ha sperimentato e giocato con le immagini; ha fatto di tutto per creare un mondo a metà, o all’opposto un mondo al quadrato, dove la musica, i suoni e i corpi assumono non solo un ruolo importante ma addirittura diverso da quello che hanno di solito.
L’Orfeo del titolo, interpretato da Luca Vergoni, è un pianista. Quando incontra Eura, interpreta da Giulia Maenza, si innamora. I due cominciano a frequentarsi, a cercarsi e a stare insieme. Poi, di colpo, Eura scompare. E allora Orfeo parte per salvarla, scende all’Inferno (letteralmente) e si prepara a fare i conti con sé stesso e con i ricordi, e con questa voglia frenetica, anzi famelica, che ha di felicità: non può lasciare andare Eura perché per lui coincide esattamente con l’idea stessa di gioia e contentezza; non può, e non vuole, lasciarla andare perché si è convinto che oltre a lei non ci sia altro. Incontra diavoli e mostri, Orfeo. E incubi e scheletri. Eppure va avanti, procede; arriva fino a dove deve arrivare.
Un mondo nuovo
In meno di un’ora e mezza, Villoresi costruisce un mondo del mondo. Quello dilatato che conosciamo. E quello artigianale, spiccatamente fittizio, fatto di animazione tradizionale e di stop motion (a questo proposito, vanno menzionati gli animatori che hanno lavorato al film: Anna Ciammitti, Stefania Demicheli, Umberto Chio; e gli scenografi: Riccardo Carelli e Federica Locatelli). Orfeo non insegue, banalmente, un’idea sofisticata o pretenziosa di cinema e di messa in scena cinematografica. Fa qualcos’altro, qualcosa di più importante e sottile. Qualcosa che, a una prima occhiata, rischia addirittura di passare inosservato. Cerca, ed è in grado, di creare una dimensione altra, alternativa, dove la finzione del film si trasforma nella legge del racconto. E dunque tutto – anche le sagomine ritagliate, anche le giacche mosse a mezz’aria; anche le immagini rilanciate e riproiettate in un gioco di specchi – assume una credibilità e una consistenza precise.
Guardiamo Orfeo e ci fidiamo. Di più: siamo pronti a fidarci. Uno sforzo che richiede una spinta in più da parte dello spettatore. Oltre la storia, che riprende chiaramente il mito di Orfeo e di Euridice, già rielaborato meravigliosamente da Buzzati, è l’esperienza stessa del film la cosa più importante. Che detto così, lo sappiamo, può suonare come una frase vuota, da biglietto della fortuna. Ma che in questo caso, esattamente in questo caso, assume un altro valore. Orfeo si muove su tre piani contemporaneamente. Il primo: quello visivo, pieno, potente e intuitivo. Il secondo: quello dei suoni, sotto la supervisione di Enrico Ascoli e Davide Favargiotti, che sono sempre presenti, che non vanno mai via, che rendono – proprio per la loro onnipresenza – più spesse le scene e le varie sequenze. Il terzo: la musica. Orfeo è un pianista, e il piano, come strumento musicale e come strumento narrativo, ritorna innumerevoli volte. E in questo senso il lavoro di Angelo Trabace, che ha firmato le musiche, assume una rilevanza ulteriore. Più profonda. Decisamente indispensabile ai fini della messa in scena.
Il viaggio dell’eroe
Orfeo, poi, è stato girato in 16 mm e la fotografia di Marco De Pasquale ha saputo tenere tutto, ogni cosa, ogni linguaggio narrativo, insieme: l’animazione tradizionale, le riprese dal vivo, la plasticità di una certa stop motion. È un vortice, Orfeo. Ma un vortice ordinato. Un vortice graduale, preciso, con una sua geometria e una sua traiettoria. Il viaggio di Orfeo, il protagonista, è un viaggio che ci parla di noi, del rapporto che abbiamo con la fine di qualcosa e, più nello specifico, con il lutto; ci parla della nostra ossessione per l’altro, per la felicità, e della trappola in cui talvolta i ricordi ci possono spingere. Si parla di bello, di musica, di tensione sessuale. Le inquadrature sono piene, cercano i primi piani, questi colli lunghi e sinuosi, questi occhi sgranati ed enormi che si perdono tra la paura e la sorpresa. Il suono, con queste voci che sembrano provenire da un’altra dimensione, è una sorta di velo trasparente che ricopre ogni cosa. E poi, come dicevamo anche prima, c’è la qualità artigianale della messa in scena, che è centro e periferia del racconto. E in questo senso va assolutamente citato anche il lavoro di Sara Costantini, che si è occupata dei costumi (uno dei personaggi del film è letteralmente una giacca).
Insieme a Vergoni e a Maenza, che sono la faccia, il corpo e il respiro del film, vanno menzionati pure Vinicio Marchioni, che compare come l’Uomo Verde, e Aomi Muyock, che interpreta Trudy: due personaggi più vicini al sogno e all’incubo. Orfeo rappresenta, e non è un’esagerazione, un’eccezione all’interno del panorama italiano. Perché è, fino in fondo, sé stesso. Perché è coraggioso. Perché non esita a rischiare. Perché cerca, e trova, tanto narrativamente quanto produttivamente, strade alternative, utili per esprimere concetti e significati e per contenere spese e investimenti. Perché è un’esperienza. Perché, nella sua forma, conserva e rispetta il suo contenuto. Ed è fenomenale: intenso, bello, avvolgente. Esattamente quello che il cinema, o almeno un certo tipo di cinema, promette e dovrebbe provare a fare più spesso.
