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Oliviero Toscani, il situazionista

Intervista al fotografo, che in occasione dell'uscita della sua autobiografia Ne ho fatte di tutti i colori ci racconta gli anni passati alla scuola del Bauhaus, il lavoro nella pubblicità, l'ignoranza dei fotografi e la filosofia del colore.

di Enrico Ratto

Sembra che, fin da piccolo, Fedele Toscani, papà di Oliviero, dicesse al figlio «attento, stai attento». E Oliviero Toscani è sempre stato attento, ha passato la vita a fare attenzione a tutto. Solo, non in quel senso lì. Nel suo libro autobiografico Ne ho fatte di tutti i colori, appena uscito per La Nave di Teseo, racconta tutte le persone, i luoghi, i fatti che hanno attirato la sua attenzione nel corso di questi suoi primi ottant’anni (sì, a fine febbraio Oliviero Toscani compirà ottant’anni) di vita. Lo abbiamo intervistato, e siamo partiti dalla cosa più ovvia e dimenticata di tutte: se vuoi fare bene il tuo lavoro, inizia ad andare a scuola.

ⓢ Sei tra i pochi fotografi ad aver fatto una scuola, la Kunstgewerbeschule a Zurigo, il preside era Johannes Itten, maestro della Bauhaus. È stata la scuola a insegnarti a pensare le fotografie, oltre che a farle?
La scuola d’arte è stata un vantaggio incredibile. Quando dico che i fotografi sono ignoranti, lo dico perché sono veramente ignoranti, non credono alla scuola. Uno può anche andare alla Bocconi, però ci va pensando che vuole fare il fotografo, che vuole assorbire cultura per poi fare questo mestiere. La fotografia è una tecnologia, nient’altro. Poi devi essere un autore, e per essere un autore devi andare a scuola, devi avere il tempo per la riflessione, e la scuola ti dà questo tempo. Ho avuto la grande fortuna di fare questa scuola a Zurigo nel momento in cui si passava, dalla vecchia mentalità alla Cartier-Bresson, a una nuova visione del reportage. Il vero reportage era fotografare la moda e la minigonna, non le feste religiose in Sicilia. E io ho imparato a essere testimone del mio tempo.

ⓢ Tuo padre reporter al Corriere e tua sorella, Marirosa Toscani Ballo, sono stati molto influenti per la tua formazione.
Mia sorella mi ha insegnato una incredibile disciplina fotografica. Lei e suo marito, Aldo Ballo, sono stati basilari nell’educazione, nella disciplina, nella pulizia, nel senso critico, nello studio della forma, degli oggetti. Tutto questo appartiene alla mia scuola.

ⓢ Ad un certo punto hai scoperto che anche la pubblicità poteva mostrare qualcosa di utile alla società.
La fotografia da sempre è applicata ai bisogni sociali, si è sviluppata con le esigenze della società. Ci sono stati i ritratti, che prima della fotografia erano un privilegio dei ricchi che potevano permettersi un pittore. All’inizio dell’800 ci sono stati i paesaggi, i luoghi lontani si potevano solo immaginare, e la fotografia serviva per far sapere come era veramente il mondo. Poi sono arrivate le news, i reportage dai luoghi di guerra. Io ho iniziato in quel periodo, quando questo era in auge, mio padre Fedele Toscani faceva il reporter al Corriere. Con la televisione tutto questo è finito. In quel momento ho capito che era la fine dei Cartier-Bresson. Sono usciti i giornali di moda, di costume, ed è arrivata la pubblicità. Era il momento in cui il fotografo doveva anche interpretare, non solo documentare. Hanno cominciato Avedon e Penn, era il concettualismo fotografico. E poi anche questo è finito.

ⓢ E ora?
Ora non ci sono più i giornali dove pubblicare. La fotografia va su Instagram, su TikTok. E non importa se è bella o se è brutta, va a finire lì, il resto sono domande stupide. Un’immagine su TikTok è più importante di qualsiasi fotografia che finisce sui giornali, bisogna saperlo riconoscere. Lo spazio della fotografia sono i social, i fotografi devono iniziare a capirlo. Allo stesso tempo, l’immagine è sempre più importante. Non ci sono più i fotografi, ma ci sono le immagini.

ⓢ Quando l’America è diventata interessante, più di Londra, hai preso un aereo e sei partito. Come è andata?
Non volevo fare il grande pesce nel piccolo stagno, ma il piccolo pesce nell’Oceano. Volevo andare a competere con il meglio. E devo dire che nessun fotografo italiano lo ha fatto, tranne Paolo Roversi, che è stato portato a Parigi e lì è rimasto. Tutti gli altri si sono fermati a Chiasso.

ⓢ Nel libro, racconti così quell’epoca: quando avevo 18 anni, Bob Dylan ne aveva 19. Ed era già vecchio. Ti piaceva che il mondo girasse a quella velocità?
Sì, quello era il mio mondo, ci stavo benissimo.

ⓢ Dici che le nostre vite sono scandite dalle canzoni – ci ricordiamo le epoche attraverso un pezzo degli Stones, di Dylan – e non certo per i libri che ci spiegano la società. E le fotografie, ce le ricordiamo?
Tutti si ricordano le mie fotografie di trent’anni fa. Non si ricordano le pubblicità degli altri. Ma perché le altre erano fatte dalle agenzie di pubblicità, e nelle agenzie c’è la concentrazione della demenza creativa. Cercano le idee perché non ne hanno. Fanno strategie di marketing. Non hanno ancora capito che le aziende hanno bisogno di una immagine, e l’immagine non devi inventarla.

ⓢ Sei un un situazionista, l’immagine, l’idea, la trovi tra le cose che ti offre la realtà.
Infatti, in vita mia non mi sono mai posto il problema di avere un’idea, di creare dal nulla. Mi si pone davanti un problema, ci ragiono, lo analizzo e l’idea viene fuori. Non sono mai stato assillato dal fatto di avere un’idea.

ⓢ È abbastanza facile dire che Oliviero Toscani è una persona “contro”. Probabilmente non ti sei mai posto il problema di essere contro qualche cosa.
Non sono mai stato contro nulla. Essere contro è da conservatori, è per quelli che sono contro lo sviluppo, è una cosa per vecchi borghesi. Io sono “per”, sono “per” tutto.

ⓢ Il titolo dei questa autobiografia è Ne ho fatte di tutti i colori. Hai usato i colori come una cassetta degli attrezzi per raccontarci le diversità del mondo.
I colori sono filosofia. Anche questo l’ho imparato a scuola, avevo i maestri della Bauhaus. Il colore è astratto, è una incredibile filosofia. E la tavolozza dei colori è come uno spartito musicale, basta niente per stonare.

ⓢ Ho scoperto, leggendo questo libro, che preferisci conoscere e lavorare con “brave persone”, è così?
Preferisco le persone oneste nelle loro scelte. Ora non so se Fidel Castro fosse una brava persona, ma era una persona coerente nel suo modo di pensare e quindi interessantissima. Ho un concetto molto personale di brava persona, di sicuro so che devo circondarmi di persone coerenti e oneste.