Cultura | Libri
Olivia Laing e il rapporto degli scrittori con l’alcol
Nel suo libro Viaggio a Echo Spring l'autrice di Città sola racconta le storie di Cheever, Carver, Hemingway e altri autori con problemi di alcolismo.
Un ritratto di Olivia Laing scattato per Studio da Francesco Pizzo nel parco Indro Montanelli di Milano
Nei primi anni Novanta abitavo nello stesso comprensorio di Fernanda Pivano, all’inizio di via della Lungara a Trastevere. A quindici anni, in piena cotta dopo aver letto Sulla strada e aver visto una o due foto sui risvolti di copertina in libreria (non erano ancora tempi in cui potevi cercarle su google), un pomeriggio avevo trovato il coraggio di fermare Pivano davanti al portone per chiederle di raccontarmi qualcosa su Jack Kerouac: «Era ubriaco e disperatissimo» aveva risposto lei, mi pare senza aggiungere altro. Nel libro del 2013 di Olivia Laing Viaggio a Echo Spring, che esce ora in Italia per il Saggiatore (tradotto da Francesca Mastruzzo e Alessio Pugliese) con il sottotitolo «storie di alcolismo e scrittori» Kerouac non c’è. Ci sono John Cheever, Tennessee Williams, Francis Scott Fitzgerald, Raymond Carver, Ernest Hemingway e John Berryman, altre icone di maschi bianchi americani in un’epoca che imponeva, non solo alle donne, di uniformarsi a una serie ristretta di figurine: il padre di famiglia, il seduttore, l’artista di successo, l’omosessuale nascosto e, se rivelato, per forza brillante, promiscuo, ironico: «Viaggio a Echo Spring è uno studio sul mito della mascolinità americana nel Ventesimo secolo, sulle difficoltà che gli scrittori di cui ho scelto di parlare hanno incontrato vivendo a contatto con un ideale molto tossico», dice Olivia Laing.
Come Città Sola, uscito nel 2018 (ne aveva parlato qui, durante un altro incontro con l’autrice), anche Viaggio a Echo Spring nasce da una storia personale che Laing non ha il coraggio o la voglia di fronteggiare direttamente, al punto di mettersi fisicamente in movimento alla ricerca di altre vite da esplorare per fare i conti con la propria biografia: «Ci sono alcuni argomenti che non si possono affrontare a casa, così all’inizio dell’anno avevo lasciato l’Inghilterra per venire in America, un paese a me quasi del tutto sconosciuto» racconta nel libro. Laing si riferisce agli anni della sua infanzia a contatto con l’imprevedibilità e la violenza provocate dalla malattia alcolica nella compagna della madre: «Sono cresciuta in una famiglia infestata dall’alcolismo» dice. «Avevo l’urgenza di cercare di comprendere come mai le persone diventano dipendenti dall’alcol e se è possibile guarire. Mi sono concentrata sugli scrittori perché penso siano i più articolati tra i dipendenti, e anche perché il loro lavoro mi dava la possibilità di ripercorrere la storia del loro alcolismo attraverso libri, poesie, lettere, diari. Certo non mi sono occupata solo di uomini», aggiunge Laing. «Nel 2014 ho scritto per il Guardian un longform su alcool e scrittrici in cui ci sono Patricia Highsmith, Jean Rhys and Elizabeth Bishop. È stato interessante scoprire come la misoginia sia stata uno dei motori del loro bere troppo. Ma da bambina ho avuto incontri terrificanti con la compagna alcolista di mia madre e trovo stressante scrivere di donne perché mi fa rivivere quei momenti».
Nelle prime pagine di Viaggio a Echo Spring John Cheever e Raymond Carver sono in una Ford Falcon decappottabile a Yowa City nell’inverno del 1973. Cheever ha sessantun’anni, Carver trentacinque: «A prima vista, i due uomini sembrano due poli opposti. Cheever ha tutto l’aspetto e il modo di parlare di un ricco wasp, ma una conoscenza più approfondita rivela che si tratta di un elaborato sotterfugio. Carver è figlio di un operaio di Clatskanie, Oregon, e per poter scrivere si è mantenuto per anni svolgendo lavori umili come il bidello, il magazziniere e l’uomo delle pulizie», scrive Laing. I due si sono incontrati per dei seminari all’università: «Non facevamo nient’altro che bere», avrebbe raccontato Carver tempo dopo. «Ci presentavamo in classe, per modo di dire, ma per tutto il tempo che siamo stati lì non abbiamo mai tolto la macchina da scrivere dalla custodia».
Il titolo del libro viene da una scena di La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams: «Fisicamente, Echo Spring non è altro che il nomignolo dato all’armadietto dei liquori e deriva dalla marca di bourbon lì custodito», scrive Laing. Ma quello che le interessa di più è esplorare il valore simbolico dell’alcol nella cultura americana, il suo potere di depistaggio, silenziamento, inganno e detonazione. Le fasi dell’alcol sono più o meno sempre le stesse, incarnate bene in ogni scena delle prime due serie di Mad Men (quelle della totale rimozione): i personaggi vivono momenti di gloria e auto-affermazione riempiendosi i bicchieri in uffici ben arredati, ristoranti di lusso o locali fumosi, ma si risvegliano ogni volta con addosso i vestiti della sera prima, improvvisamente scomodi, troppo stretti e stropicciati. In Mad Men ci sono anche due personaggi minori le cui storie sembrano pensate apposta per smascherare le dissimulazioni degli altri intorno all’alcol: uno beve tanto da farsi la pipì addosso e poi svenire in ufficio, l’altro deve giustificare ogni volta il proprio essere astemio. E non è un caso se Donald Draper, il grande impostore, vive a Ossining come Cheever.
Ma uno dei rischi non potrebbe essere quello di romanticizzare la dipendenza? «Non trovo ci sia nulla di romantico nell’alcolismo e spero di non aver dato questa impressione», dice Laing. «Ho scritto di quando Berryman era cosi ubriaco da farsela nei pantaloni mentre insegnava. Racconto di come Hemingway abbia distrutto il proprio rapporto con i figli. L’alcol trasforma gli umani in bugiardi che tradiscono e feriscono le persone amate. È il grande distruttore della creatività. Preferisco rendere romantico il recupero, credo sia un processo ammirevole e bellissimo». Nel libro c’è tutto l’armamentario: il brutale sistema gerarchico dei dottori, le cliniche e i farmaci, e poi la magia collettiva paritaria degli A.A., con i dodici passi a base di condivisione e fantasmi che, una volta tirati fuori dal buio, si trasformano in polvere. Ma la maggior parte degli scrittori raccontati nel libro di Laing è morto per problemi legati all’intossicazione. Come Fitzgerald, ucciso a quarantacinque anni da un attacco di cuore a Los Angeles, o Hemingway che a sessantadue si è sparato un colpo di fucile in testa in Idaho. Per ognuno di loro, non deve essere stato facile convivere con i traumi dell’infanzia, della guerra, con le delusioni professionali (è assurdo oggi pensare a Gatsby accolto con freddezza, eppure è andata così), con l’ansia delle famiglie da mantenere con i proventi altalenanti del lavoro creativo: «Se riscrivessi oggi il libro», dice Laing, «mi soffermerei di più sulle pressioni del successo e sulle difficoltà di sottoporre la propria creatività al pubblico scrutinio».