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Le ragazze non stanno bene

La dark comedy con Zoey Deutch, Not Okay, racconta la storia di una influencer fallita disposta a tutto pur di diventare famosa. E che, forse, ci assomiglia più di quanto crediamo.

di Silvia Schirinzi

Zoey Deutch in "Not Okay", dal 29 luglio su Disney+

Danni Sanders è uno di quei nomi che, in maniera del tutto randomica, potreste veder passare nella vostra timeline di Twitter, una perfetta sconosciuta balzata improvvisamente alla notorietà di internet per qualche misfatto consumatosi, ovviamente, online. Danni Sanders potrebbe essere insomma la cancellata del giorno, l’anonima di passaggio della cui mirabile stupidità si discute animatamente su Instagram e TikTok, o meglio ancora la “unlikable female protagonist” di Not Okay, la dark comedy diretta da Quinn Shephard dal 29 luglio disponibile in Italia su Disney+ (in America è una produzione Hulu). La scritta, ironica, che compare nei titoli di testa – «Attenzione, questo film contiene luci stroboscopiche, temi sensibili e una protagonista femminile che non vi piacerà» – è diventata essa stessa oggetto di discussione, lo segnala Variety, con l’immancabile denuncia di sessismo: «Abbiamo mai specificato che Don Draper o Kendall Roy sono unlikable???» , si è chiesto infatti qualcuno. Not Okay è d’altronde un film letterale, che si inserisce nel solco dei documentari e delle serie che negli ultimi anni si sono lanciati sulla sempre popolosa categoria degli scammer, da Anna Delvey al traditore seriale di Tinder, nel tentativo di indagare le bassezze umane e il modo in cui si sono amplificate da quando possediamo uno smartphone.

È letterale perché vuole esserlo, a cominciare dai titoli di testa fino alle smorfie con cui la brava Zoey Deutch mette continuamente in imbarazzo la sua Danni, e vuole esserlo perché è così che il più delle volte ci comportiamo – come degli esseri manichei, senza sfumature – sui social. Danni lavora come photo editor per un magazine che si chiama Depravity che fa il verso a piattaforme che hanno fatto dell’empowerment il loro mantra come Refinery29; vive, almeno così dice, nella parte sfigata di Bushwick; vorrebbe fare la scrittrice ma in realtà scrive solo articoli orrendi intitolati “Perché sono così triste” che la sua direttora non sa più come rispedire al mittente. Danni, però, vorrebbe soprattutto diventare famosa, almeno come lo sono gli editor e gli influencer che popolano il suo ufficio, compreso un imbarazzante Dylan O’Brien ossigenato, che interpreta una sorta di mix tra Machine Gun Kelly e Logan Paul nonché il suo inutile interesse amoroso.

A Danni, lo dice lei stessa, andrebbe bene raggiungere «la fama che ha Lena Dunham oggi» – ovvero quella di essere privilegiata, out of touch, con anche delle mezze accuse di molestie sessuali alle spalle –purché sia fama e purché le possa garantire di presenziare agli eventi, avere l’attenzione del suo TikToker cretino, essere infine riconosciuta. Danni, però, non ha nessuna carta da giocarsi nella costruzione del suo brand personale. Non è brillante né cringe abbastanza come lo è Caroline Calloway – la finta influencer letteraria divenuta popolare qualche anno fa grazie a un articolo di The Cut che nel film interpreta sé stessa – è solo convenzionalmente carina, viene da una famiglia alto borghese quindi non ha mai avuto problemi di soldi, è bianca (cosa che lei percepisce come uno svantaggio) ed è pure eterosessuale. Se questa lista di “sfortune” vi ha fatto almeno sorridere probabilmente lo farà anche Not Okay, nel modo in cui esplora le fissazioni di una generazione, di più generazioni, di persone «extremely online», il cui cervello ha preso a funzionare diversamente per via dei social media.

Così, Danni si inventa un finto programma letterario, chiaramente di base a Parigi, e si rinchiude nel suo appartamento da ragazza con i ciuffi biondi che neanche Dua Lipa porta più, gli anelli di plastica e le borsette anni Novanta che compaiono nelle sponsorizzate di Instagram a photoshoppare finte colazioni, finte visite ai monumenti della città e finte frasi da motivatrice social. Le va anche bene all’inizio, il tipo addirittura la risegue perché Parigi è ancora un’ottima merce di scambio online, nonostante accusi una certa stanchezza tra la Gen Z, finché proprio a Parigi, quella vera, precisamente all’Arc de triomphe da dove lei ha postato una finta foto qualche minuto prima, accade quello che accade giornalmente nelle nostre timeline: e cioè un evento traumatico, in forma di attacco terroristico. Danni potrebbe tirarsi indietro, ma non lo fa, perché qualcosa le dice che quella è la sua unica occasione: diventa così la finta vittima del vero attacco terroristico, con tanto di hashtag virale #IAmNotOkay rubato a un’attivista che conosce in un gruppo di supporto e che verrà ricondiviso persino da Kendall Jenner, «che non immaginavo avesse subito discriminazione», si stupisce lei. È da quel momento che Not Okay si fa interessante, soprattutto per come cerca di mettersi in discussione, in una maniera che definirei nevrotica: innanzitutto nel mettere a confronto Danni e Rowan, che ha perso la sorella in una sparatoria, che ora si batte per la riforma sulle armi e che rappresenta perciò la parte “buona” dei social, quella che aggrega le persone e le mobilita per cause giuste. Ma alla fine i film e i documentari su Netflix e Hulu, dice Rowan, si fanno sempre su quelle come Danni, compreso questo.

Shephard, attrice e regista classe 1995 che si era già fatta notare nel 2017 per aver diretto e interpretato Blame, sa sfruttare al meglio la sua ironia figlia di internet che infatti pervade tutto Not Okay, dal profilo TikTok aperto un anno prima dell’uscita del film alla riunione del gruppo di supporto dei cancellati social, in cui c’è la Karen con il taglio di capelli da Karen e Caroline Calloway maestra di cerimonia e scammer pentita, fino alla scelta di non concedere a Danni nessun arco di redenzione. Scema era, e scema rimane, anche se il suo indirizzo è stato diffuso online con annesse minacce di morte. Ha detto più volte Shephard che «la vera protagonista del film è Rowan», la ragazza, appartenente a una minoranza etnica, che è rimasta traumatizzata da un evento terribile e che sta cercando di trasformare il suo dolore personale in azione politica, con tutte le difficoltà che ne derivano. Not Okay non parla di lei, però, ma finisce a fare meta-critica perché forse niente ci interessa di più che seguire le gesta di quell* che potrebbero fare qualche stupidaggine online. Forse internet è tutto lì.