Cultura | Personaggi
Anche Nicolas Winding Refn vuole fare i supereroi
Intervista al regista danese, che ci racconta la sua nuova serie tv, Copenhagen Cowboy, le sue passioni per pittura e videogiochi e ci spiega perché oggi Shakespeare scriverebbe di criminalità.
Foto di Magnus Nordenhof Jønck (Netflix)
Nicolas Winding Refn fa tutto con calma. Sta seduto mollemente, con le gambe accavallate e le dita delle mani intrecciate sulla pancia. Sembra un gatto. Ogni tanto, aggrottando leggermente la fronte, inclina la testa di lato, sulla spalla destra, e apre un po’ di più gli occhi. A volte annuisce, seguendo il filo del discorso; altre volte, resta immobile. Quando parla, non solo sceglie le parole con cura, ma si spinge oltre: se serve, si fa delle domande; e se il suo interlocutore non interviene, cerca altri spiragli logici in cui infilarsi. Definirlo regista non basta; è più un artista che nel linguaggio del cinema ha trovato la sua finestra sul mondo.
Copenhagen Cowboy, la sua nuova serie tv disponibile su Netflix dal 5 gennaio, risponde a una necessità precisa: dare forma alla sua idea di supereroe. È un insieme di colori e frame, e una via di mezzo tra quello che ha già fatto in passato e la strada che sta percorrendo in questi anni. Quando racconta la sua genesi, sorride: ed è un sorriso enigmatico, invitante, che vuol dire tutto e vuol dire niente. «Durante la pandemia, siamo rimasti bloccati in Danimarca», dice. «E in quel periodo confesso di essermi sentito piuttosto ansioso, e ho cominciato con insistenza a farmi una domanda».
ⓢ Quale?
«Che cosa dobbiamo fare ora?»
ⓢ Ed è stato in quel momento che ha pensato per la prima volta a Copenhagen Cowboy?
Non c’è stato un momento specifico in cui ci ho pensato, dico la verità. È venuto così, quasi naturalmente.
ⓢ Ha lavorato sia con Prime Video, per Too old to die young, sia con Netflix. Qual è la differenza più grande tra queste due piattaforme streaming?
È difficile da dire. Sono state due esperienze diverse, non posso paragonarle. Quello che posso dire, però, è che lavorare con Netflix è stato molto proficuo. Ero preoccupato la prima volta che sono entrato in contatto con loro? Certo, di solito collaboro con un altro tipo di realtà. Ma questo mi è sembrato il progetto perfetto per provarci.
ⓢ In che senso?
Netflix non ha solo creato questo mercato, e non è stata solo la prima a impegnarsi attivamente con lo streaming. Ancora oggi conserva un’anima ribelle, rock and roll. Per questo motivo, siamo subito riusciti a trovare un terreno comune.
ⓢ Qual è la cosa più importante, per lei? Le immagini o la scrittura?
Le idee. Parto sempre da lì. Mi piace avvicinarmi ai progetti da un punto di vista puramente concettuale, e capire solo in un secondo momento quello di cui ho bisogno per andare avanti. A volte si tratta di un’immagine; altre, invece, della sceneggiatura. Dipende.
ⓢ In questo caso, con Copenhagen Cowboy, qual è stata l’idea?
Volevo creare il mio supereroe.
ⓢ Da cosa ha cominciato?
Ogni supereroe ha bisogno delle sue origini, e quindi sono partito da lì. Dal principio di tutto. Quando ho iniziato a girare, però, ho capito che un supereroe solo non mi bastava; così, ne ho creati due: Miu [interpretata da Angela Bundalovic, ndr] e Rakel [interpretata da Lola Corfixen, ndr].
ⓢ Come mai ha fatto questa scelta?
Non è mai una questione di perché; è una cosa che tendo a non chiedermi mai, se devo essere sincero. Provo ad affrontare il tema da un’altra prospettiva, e cioè: se non faccio così, che cosa posso fare? È decisamente più eccitante. È l’approccio più vicino possibile, per me, alla pittura. E parlo di pittura perché onestamente non so fare altro: non so suonare uno strumento e sono dislessico. Abbraccio completamente l’idea di fare qualcosa di nuovo.
ⓢ Per un creativo, dove c’è più libertà oggi? In televisione o al cinema?
Secondo me, tutti e due questi linguaggi continuano ad avere gli stessi problemi e a dover affrontare gli stessi ostacoli. Spesso dipende dalle persone con cui lavori. Io sono sempre stato libero, e lo so: non succede a tutti. Ma io non conosco altro modo per fare il mio mestiere: devo essere libero. In generale l’industria è ancora piuttosto rigida nel suo controllo. Ed è giusto, in un certo senso: questo è un mercato, vengono spesi soldi e risorse; le persone vogliono essere sicure dei loro investimenti.
ⓢ Delle decisioni che vengono prese, invece, che cosa pensa?
A volte non le condivido. Basta guardare quello che fanno i più giovani: preferiscono essere collegati a Internet, stare sui social. Perché è lì che si sentono a loro agio. Noi lavoriamo con un linguaggio che possiamo tranquillamente considerare vecchio. Il nostro compito è riuscire a trovare un ponte con questo pubblico di ragazzi.
ⓢ Altrove, nell’industria videoludica per esempio, c’è un altro tipo di spinta creativa.
Sono molto affascinato dai videogiochi. Inconsciamente baso molte delle mie storie sulla struttura a livelli. Certo, mi fermo alla superficie, non vado mai a fondo; quello che mi interessa è il singolo momento.
ⓢ La sua passione per le storie come nasce?
Quando ero bambino non ero un cinefilo. Amo e ho sempre amato il cinema, intendiamoci. Ma il mio primo contatto con questo tipo di racconti è stato attraverso la televisione. Avevo a mia disposizione tantissimi canali, e ogni canale corrispondeva a un click; e dopo ogni click, arrivavano una serie di combinazioni e colori.
ⓢ Sta lavorando a qualcosa di nuovo con Hideo Kojima?
Considero Hideo uno dei miei più cari amici. Spesso collaboriamo; altrettanto spesso ci muoviamo da soli. Sotto diversi aspetti siamo piuttosto simili e confrontarmi con lui mi piace veramente tanto.
ⓢ Dopo Too old to die young, avrà un cameo anche in questa serie?
Sì.
ⓢ Copenhagen Cowboy, come ha già detto, è una storia di supereroi. Ma qual è, alla fine, il tema principale del racconto?
Francamente non passo il mio tempo così, sedendomi e riflettendo sui temi delle mie opere. Mi piace quando le cose trovano da sole, quasi naturalmente, un loro equilibrio. E non importa il genere. All’improvviso un film può diventare un horror oppure un racconto di fantascienza. In questo caso, abbiamo una storia che parla di donne e che ha al proprio centro le donne: rapporti, ambizioni, desideri. Che posso dire? Io adoro le donne.
ⓢ Che tipo di relazione tende a instaurare con i suoi attori?
È una cosa che deve chiedere a loro. Per me, sono una parte fondamentale di quello che faccio. Passo molto tempo scegliendo gli interpreti giusti, e passo molto tempo sul set. Mi capita di cercare me stesso in loro.
ⓢ Come ha trovato il cast per questa serie?
In generale, ho provato a coinvolgere attori non professionisti. Volevo circondarmi di persone vere, genuine e spontanee. Non ho mai cercato di trascinarle nel mio mondo; sono andato nel loro, e ho provato a costruire il racconto così.
ⓢ «Se oggi Shakespeare fosse ancora vivo e dovesse scrivere», ha detto, «scriverebbe di criminalità». Perché?
Il ruolo della famiglia, oramai, è cambiato. La criminalità ha qualcosa di interessante, qualcosa di contorto e profondamente umano – e sbagliato. La criminalità è uno specchio della nostra società; e in quanto società ne siamo ossessionati. È una cosa che tutti, prima o poi, si chiedono: “Come sarebbe la mia vita se non la vivessi come la vivo adesso, rispettando le regole?”.
ⓢ Sta ancora lavorando al reboot di Maniac Cop?
Sì, assolutamente.
ⓢ Perché proprio questa storia?
Perché le buone idee non invecchiano mai.