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La rinascita di Nick Cave, il predicatore

Dal tour che ha toccato anche l'Italia al secondo documentario girato dall'amico Andrew Dominik, This Much I Know to Be True, da poco disponibile su Mubi, è l'estate del cantautore, nonostante i drammi familiari.

di Federico Sardo

Nick Cave al Metronome Festival di Praga lo scorso 23 giugno (Foto di Michal Cizek/AFP)

Una ventina di anni fa, in quella che è strano a dirsi ma era già la seconda parte della sua carriera, quella meno punk e caratterizzata da un fascino tra il crooner e il predicatore, Nick Cave raccontava di andare a scrivere tutti i giorni in ufficio, nei canonici orari di lavoro, come un impiegato di banca. Erano già lontani i tempi dei Birthday Party, o della copertina di From Her To Eternity, in cui sembrava più morto che vivo. Se sopravvivi agli eccessi da rockstar più estrema che ci sia, avere una seconda vita artistica come quella di Nick Cave è probabilmente la cosa migliore cui si possa aspirare. Non è un caso che il modello del songwriter seduto al piano con un completo elegante è quello cui punta la maggior parte di quelli che hanno fatto i frontman in una band, anche se non tutti sono in grado di scrivere “Into My Arms”. È quello di un artista iper prolifico e con un carisma da riempire una stanza, che sembra sempre vivere in un suggestivo bianco e nero anche quando va a fare la spesa, che riesce a interpretare una canzone che comincia con la frase “I don’t believe in an interventionist God” senza risultare ridicolo. Nonostante una vita molto più regolare da tutti i punti di vista, la poetica di Cave non ha mai perso la fascinazione per il lato oscuro dell’esistenza, tra murder ballads e violenze di vario tipo, solo il suo approccio alla vita è cambiato profondamente, anche se vent’anni fa certo non poteva sapere quanto sarebbe dovuto cambiare ancora.

Non che se ne fosse mai davvero andato, ma negli ultimi mesi di Nick Cave si è parlato molto. Ai primi di maggio è morto in circostanze non chiarite suo figlio Jethro Lazenby, che aveva sempre vissuto in Australia e Cave aveva conosciuto poco: un lutto che si è andato ad aggiungere a quello del 2015, quando a morire tragicamente cadendo da una scogliera era stato il figlio quindicenne Arthur (cresciuto invece con il padre, la madre Susie Bick e il fratello gemello Earl), quasi che il destino o chissà quale forza superiore abbia voluto accanirsi particolarmente su di un uomo che di morte, violenza, religione e tormento ha sempre fatto il centro della propria musica.

Ma Cave sembra reggere, sembra miracolosamente riuscito a trovare un senso, e un modo per andare avanti, nonostante tutto. Continua a pubblicare dischi, è in tour (ha suonato da pochissimo all’Arena di Verona), non si risparmia anche nel raccontarsi, per esempio curando in prima persona un sito web (Red Hand Files) dove risponde alle domande, spesso molto profonde e relative al senso dell’esistenza, che gli vengono inviate da tutto il mondo. Ma non si tratta del classico caso di rifugio ossessivo nel lavoro per non pensare alla tragedia, come si potrebbe pensare. A raccontarcelo è lui stesso, in modo diretto e non solo, nei due film documentari che ha girato Andrew Dominik, nel 2016 (One More Time with Feeling) e quest’anno (This Much I Know to Be True, da poco disponibile su Mubi), durante le registrazioni degli album Skeleton Tree, Ghosteen e Carnage.

Anche lui australiano, già noto soprattutto per lo splendido L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (colonna sonora a firma Cave e Warren Ellis), Dominik è un suo amico da una vita, da quando Cave era già una rockstar e il futuro regista soltanto un ragazzo in cerca di eroina, e si sono incontrati sul divano di un pusher. Dominik, che gli è stato molto vicino, con una telecamera in mano, in uno dei periodi più difficili della sua vita, dice una cosa molto bella nell’intervista che gli ha fatto Edoardo Vitale per Rolling Stone Italia: «È evidente che in questi anni abbia imparato qualcosa su come arrivare a patti con il lutto e trovarci dell’umanità, persino della bellezza, per essere più connessi con il mondo, con le persone attorno ed essere coinvolti più profondamente con la nostra vita. In qualche modo il lutto ha iniettato in lui una forma di vita».

Guardando i due film in sequenza è impossibile non notare quanto Cave sia diverso. Nel primo, volutamente girato in un momento ancora tremendamente vicino alla tragedia, è un uomo sotto shock, che spesso fa fatica a parlare e che «looks like a battered monument», come gli dice Dominik. È un uomo che sta chiaramente ancora facendo un percorso. Nel secondo pare di vedere una sorta di luce alla fine di quel percorso. In One More Time with Feeling, che è un vero e proprio documentario con un po’ di canzoni, girato in un bianco e nero dai forti contrasti, Cave racconta di come le sue canzoni fossero essenzialmente delle storie, ma che ora non riesce a trovare quel tipo di ordine nella vita. Che se le sue prime canzoni erano dominate dalla fisicità e poi dalla razionalità, ora è guidato dall’inconscio. Che i traumi sono ottimi per avere qualcosa da scrivere, ma che ci sono traumi così enormi da prendersi tutto, da non lasciare spazio alla mente per altro, compresa la creatività. Che in quel momento riesce a parlare solo di debolezza e impotenza, che un evento del genere ti porta a capire di non avere alcun controllo sul mondo e a non credere più in te stesso. C’è solo uno spiraglio, alla fine, quando passato un po’ di tempo dice che decidere di essere felici può essere un atto di vendetta e di sfida.

In This Much I Know To Be True, che è soprattutto il film di un concerto, intervallato da interviste, backstage e riflessioni, girato a colori con toni che tendono verso il verde acqua, un Cave molto più sicuro di sé spiega che anche se non abbiamo il controllo di quello che succede possiamo sempre scegliere come reagire a ciò che ci accade. Lo vediamo mentre fa il direttore d’orchestra della sua band, mentre balla, mentre si perde nella musica. Una catarsi impossibile da non cogliere ancora prima che venga esplicitata, cosa che Cave fa quando dice che si può sempre trovare nelle cose un significato all’esistenza. E che non si tratta del lavoro, ma dell’essere vivi, dello stare nel mondo, del trovare una connessione con gli altri. Che oggi per lui è più importante essere una persona, in relazione a chi gli sta vicino, che un artista. Mentre dirige la sua band, mentre sta dietro al microfono, mentre recita parole di insostenibile intensità, sembra di guardare un personaggio del mito, qualcuno con una funzione, qualcuno che ha, suo malgrado, vissuto esperienze terribili per tutti noi, per venircele a testimoniare. I traumi che ci colpiscono da adulti possono essere i più tragici. Teoricamente avremmo vissuto abbastanza da poterli affrontare in modo migliore, ma la sorpresa è scoprire sempre che non è così. Ma anche, alla fine del percorso, che nonostante tutto si può andare avanti.