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ATM ha messo online l’archivio delle sue vecchie campagne e sono bellissime I manifesti, i depliant e le locandine di Azienda Trasporti Milanesi riflettono l’evoluzione del costume e della società milanese.
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ChatGPT ha lanciato il suo browser con il quale vuole fare concorrenza a Google Chrome Si chiama Atlas, integra l’AI sin dalla barra di ricerca e aspira a insidiare il primato del web browser più utilizzato al mondo di Chrome.

New York Times Vs New York Times

Il New York Times ha scelto di rispettare il silenzio stampa imposto dal governo israeliano a proposito dell’arresto di un attivista. La decisione ha suscitato critiche e un dibattito interno al giornale.

24 Aprile 2014

Lo scorso 12 aprile le autorità israeliane hanno arrestato alla frontiera con la Giordania Majd Kayyal, un giovane giornalista, nonché attivista politico, arabo israeliano che stava rientrando nel paese dopo una visita in Libano. L’accusa era quella di avere visitato un Paese nemico, cosa proibita dalla legge israeliana (tra il Libano e Israele non ci sono relazioni diplomatiche, cosa che spiega perché il reporter sia passato dalla Giordania), ma è probabile che le autorità tenessero d’occhio il giovane per altre ragioni – tanto che Kayyal era a bordo della Freedom Flottilla, la controversa missione umanitaria diretta a Gaza nel 2011, e che, sebbene in passato altri giornalisti israeliani siano finiti nei guai per avere visitato il Libano, nessuno era mai stato arrestato.

In ogni caso, quello di cui vorrei parlarvi adesso non è tanto il caso specifico di Kayyal, né la legge israeliana che ne ha reso possibile la detenzione, quanto piuttosto il caso mediatico che ne è seguito. E che ha portato a uno scontro, insolitamente diretto e a riflettori aperti, tra le firme del New York Times.

Questi i fatti. Kayyal, 23 anni, è stato liberato cinque giorni dopo il suo arresto, il 17 aprile. Quello che più conta, ai fini di questa storia, è che per i primi quattro giorni della sua detenzione, e cioè tra il 12 e il 16 aprile, le autorità israeliane hanno imposto il silenzio stampa. In quei quattro giorni, in pratica, la stampa israeliana non ha potuto riportare la notizia – domanda: e la stampa internazionale, che tra Gerusalemme e Tel Aviv vanta svariati corrispondenti?, ci arriviamo dopo.

Naturalmente, al fine pratico di non fare uscire la notizia, una disposizione del genere non ha effetto alcuno, nell’era di Internet, dei social media eccetera eccetera. Nel giro di poche ore dal fatto, Adalah, l’associazione arabo israeliana per cui Kayyal lavora come web editor, ha postato sulla propria pagina Facebook la notizia, immediatamente ripresa da Electronic Intifada, sito d’informazione filo-palestinese molto seguito, e assai noto anche tra i giornalisti mainstream. In pratica, tutti quelli che seguono il conflitto israelo-palestinese sono stati informati nel giro di poche ore, con buona pace del gag order.

Il New York Times ha dato la notizia con un articolo a firma di Isabel Kershner, una dei corrispondenti da Gerusalemme, pubblicato sulla sito il 17 aprile e su carta il 18 aprile. In questo pezzo Kershner fa notare 1) che precedentemente era stato imposto dalle autorità israeliane il silenzio stampa, ma 2) la notizia era comunque rimbalzata sui social media.

L’articolo è stato oggetto di alcune critiche da parte di voci filo-palestinesi, a cominciare da Electronic Intifada. Da un lato quel riferimento, a essere onesti piuttosto vago, al gag order è stato interpretato come un’ammissione implicita che il New York Times si sente vincolato alle disposizioni di silenzio stampa imposte dalle autorità israeliane. Inoltre Kershner è stata accusata di mancata trasparenza, dal momento che ha riportato la disposizione senza però spiegare che era stata rispettata anche dal suo giornale.

Ora, fin qui nulla di strano. La cosa un po’ meno scontata, è che il New York Times, una parte del New York Times, ha risposto dando ragione a queste critiche.

Si è occupata della vicenda Margaret Sullivan, public editor del Nyt, il cui lavoro consiste appunto anche nel rendere conto al pubblico di questioni di etica giornalistica indagando in modo indipendente dal resto della redazione (se v’interessa, il suo ruolo è spiegato qui).

«Trovo disturbante che il Times sia nella posizione di dovere attendere il via libera da parte di un governo per pubblicare una storia»

Dopo avere consultato alcuni editor del Nyt, Sullivan ha fatto il punto della situazione con un post sul suo blog il 18 aprile. Messa giù in modo semplice: Il New York Times è o non è vincolato dalle disposizioni di silenzio stampa imposte emesse da governi stranieri?

Le risposte che Sullivan ha ottenuto sono state, beh, un po’ confuse. Judy Rudoren, il capo dell’ufficio di corrispondenza di Gerusalemme (cui, si suppone, Kershner abbia fatto riferimento), in un primo momento ha detto che il New York Times accetta di rispettare i silenzi stampa imposti dalle autorità israeliane in cambio dei permessi giornalistici. Poi però si è corretta, spiegando che i gag order vanno osservati perché si tratta di rispettare le leggi locali, come succede anche per il codice stradale.

Rudoren ha anche detto di essersi consultata con due dei suoi predecessori, che le hanno detto che anche in passato il giornale ha rispettato i silenzi stampa. Tuttavia il managing editor Dean Baquet e la sua vice Susan Chira sostengono di non essere a conoscenza del fatto.

Uno degli avvocati del giornale, David McCraw, sostiene che la questione è controversa, ma il consenso generale è che le leggi giornalistiche dei paesi ospitanti si estendono ai corrispondenti stranieri. Tuttavia, come spiega anche Rudoren, ci sono molti modi per aggirarle senza rischi: per esempio, una volta uscita la notizia sui social media si sarebbe potuto assegnare la storia all’ufficio di New York, che a differenza del bureau di Gerusalemme non è vincolato dalle leggi israeliane.

Nel caso specifico – su questo Sullivan e Rudoren sono d’accordo – avere aspettato un paio di giorni per dare la notizia non ha fatto molta differenza. Ma in linea di principio Sullivan pare piuttosto critica: «Trovo disturbante che il Times sia nella posizione di dovere attendere il via libera da parte di un governo per pubblicare una storia», ha scritto.

Soprattutto, ha aggiunto che «se la legge rende questa situazione inevitabile, un po’ di trasparenza non farebbe male». In altre parole: il giornale avrebbe dovuto avvisare i propri lettori non solo del gag order imposto, ma anche della sua decisione di rispettarlo. Decisione che, giusta o sbagliata, quanto meno non deve essere data per scontata.

Nell’immagine: un dettaglio dell’ufficio del New York Times a Parigi. Foto di Guillaume Belvèze, per Studio.

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